Anche le pro-life nel loro piccolo abortiscono: consigli marketing per antiabortisti

Cari pro lifers se io non farò figli sarà prevalentemente a causa vostra. O per colpa vostra, visto che come parola vi è più vicina, nel vostro universo moralista. Ci tenevo a dirvelo, quanto il vostro comportamento sia controproducente, così magari potete ideare una migliore strategia marketing.

Indentiamoci, alcune persone non vogliono figli. Non li vogliono, hanno fatto una scelta e hanno i loro motivi. La genitorialità è una scelta personale e, per chi deve portare in grembo il pargolo, è una scelta ancora più importante. Queste dovrebbero essere le idee base, credo, e invece non lo sono. E quindi veniamo a parlare di un altro gruppo di persone, che secondo me sono quelle a cui dovreste fare più attenzione: gente che, forse, un pargoletto ad un certo punto della vita lo vorrebbe.

Quest’estate, dopo una pandemia che ha scosso tutti, mi sono dovuta subire due manifestazioni a Berlino. Una con un Weimarer-Republik-feeling che non vi dico, coi negazionisti del Covid con le bandiere del Terzo Reich che cercano di entrare in parlamento e la polizia che si guarda credendo sia una candid camera, e una con gente con l’immagine di un feto sulla testa. Eh ma la libertà ce la leva la mascherina. Proprio.

Scusate, ma per me siete come i nazisti. Quello che per loro è questo ideale di nazionalità e purezza, è per voi l’obbligo della donna al procreare. E non a caso queste cose vanno spesso a braccetto. Voi non siete pro vita, siete assolutisti. È bello l’assoluto, le certezze, la foga da stadio e il nemico preciso, rendono la vita più semplice ma purtroppo o per fortuna l’umanità evolve e continuare con una linea di pensiero fissa senza guardarsi intorno equivale al nascondersi in pesanti dissonanze cognitive per tutta la vita.

Per voi la gravidanza è un assoluto, come nella maggior parte dei film blockbuster: sesso, pancione, bambino. Tuttavia la gravidanza è un processo. Per me è avvilente sapere che se nel processo dovessero succedere imprevisti io potrei andare incontro a violenza psicologica, vergogna, insulti, violenza fisica, mancato rispetto della privacy e della mia volontà. Si tratta di qualcosa di molto peggio dell’ansia da prestazione. Se da una parte c’è l’orologio biologico che non scherza, dall’altra parte ci siete voi coi neuroni a specchio spenti. E se foste solo in piazza con i feti in testa non sarebbe neanche questo grande problema, ci si potrebbe ridere su. Il problema è che siete negli ospedali, nelle cliniche ginecologiche, fra gli anestesisti e in numerose posizioni di potere.

La storia di M.L e dei cimiteri dei feti è agghiacciante ma è solo la punta dell’Iceberg. Qualche giorno fa era appunto la giornata dell’aborto sicuro e legale e ho letto le peggio cose. Tralasciando il fatto che persino in gruppi pro choice si continua con la retorica- che è un po’ un contentino ai pro life- che l’aborto è un’esperienza traumatica in tutti i casi E NON è VERO. Per la maggior parte delle donne è un kafkiano tormento, una corsa contro il tempo e contro le istituzioni e spesso un trauma. Ma non perché di per sé è un evento traumatico per chiunque, ma perché spesso lo si fa diventare un trauma. Si ospedalizza anche quando non è necessario (vedi dibattito RU 468), si fa violenza psicologica e si nega, fra tante altre mille cose, una terapia del dolore.  Comunque che tu lo faccia perché hai appena vinto un dottorato di ricerca e non ne vuoi sapere, perché purtroppo a livello economico sarebbe una catastrofe, perché la persona con cui hai una relazione non è pronta, perché hai subito violenza, perché comprometterebbe la tua salute fisica o mentale o perché il feto nascerebbe con una probabilità di vita che ti provocherebbe solo dolore, tu e solo tu dovresti avere il diritto di scegliere e vivere l’evento come vuoi, circondata dalle persone che ti amano. E invece spuntate voi, geniali pro life, con quella pillola di senso di colpa patriarcale che rovina la psiche dai secoli dei secoli. Neanche gli aborti terapeutici vi vanno bene. In Brasile stavate per far partorire una 14enne stuprata pur di rispettare sta fantomatica vita umana.

Ecco capirete come con queste premesse, il vostro target si senta già un po’ poco propenso all’acquisto. Ma andiamo avanti. Mettiamo che invece vada tutto bene, c’è felicità e la gravidanza si è portata al termine come sperato. Veniamo al parto. Le bacheche dei gruppi femministi sono sempre più piene di racconti di violenza ostetrica, per variare fra un femminicidio e l’altro. Bene la violenza ostetrica è una violenza sessuale. Non rispettare la volontà delle partorienti, praticare interventi considerati illegali dall’OMS senza informare, commenti acidi, negazione della terapia del dolore, impedire a* partner l’accesso alla sala parto, rasature inutili (anche io sono rimasta incredula quando l’ho letto)….ne va dell’immagine del brand, fidatevi. Quindi fossi in voi inizierei a dire che combattete la violenza ostetrica. Perché non basta dire che sarà “Il giorno più bello della tua vita”, bisogna anche renderlo tale. Invece c’è una specie di consenso collettivo alla violenza ostetrica, tanto che le donne spesso non sanno di avere determinati diritti e accettano ogni cosa come normale. Eh ma noi Pro life che cosa c’entriamo con la violenza ostetrica? Venite fuori da una linea di pensiero molto simile. Che vuole la donna come strumento riproduttivo e non come reale essere umano con volontà e bisogni.

Ma ora qualcuno dirà che sono pessimista, che ha avuto parti bellissimi con persone meravigliose fra il personale medico e che la violenza ostetrica è solo il 21 per cento dei casi. Prima di tutto la violenza ostetrica è difficile da riconoscere e a livello di denunce ci troviamo come negli anni 40 con le violenze domestiche e gli stupri nel matrimonio. Secondo, a me il 20 per cento, anche il 5, basta per far venire l’ansia. E non sono l’unica. Terzo, la verità è che siamo passati da “Donna tu partorirai con dolore” a “Donna povera, tu partorirai con dolore”. Puoi sceglierti il personale giusto, puoi avere una stanza tutta per te, praticare un parto orgasmico in acqua mentre ti masturbi  in casa tua o avere il miglior cesario programmato indolore, ma devi pagare. Un parto sereno è spesso un privilegio di classe. E la stessa cosa vale per l’aborto. E non va bene, porcapigna.

Potreste battervi per politiche sociali che tutelano le giovani coppie ( e non state sempre a puntare solo sugli etero cisgender per piacere) e usare quella barcata di soldi che avete per costruire asili gratuiti intorno alle università così da poter far più facilmente coincidere la vita accademica con la genitorialità, al posto di seppellire prodotti del concepimento di gente non religiosa, senza il loro consenso e con simboli che rispecchiano solo il vostro credo. Seguitemi per altre strategie e vivrete in un mondo in cui non potrete mai più prendere un mezzo pubblico senza sentire il soave strillo di un neonato che si affaccia su un’umanità prossima al disastro ecologico.

Vorrei concludere questo articolo con una chicca: anche le pro life abortiscono. Sembra impossibile a dirlo ma in un gruppo fb è intervenuta una ragazza che lavora in una clinica abortiva  e ha raccontato scene di una drammaticità immensa. Gente che non si vuole sedere nella sala d’attesa insieme alle altre perché “Lei non è un assassina come loro”, personaggi ribelli che si rifiutano di firmare i moduli e di dare dati personali, persino una donna che urla “Tu andrai all’inferno” al medico, poco prima di un raschiamento. Io credo che dovreste stare attenti a queste mele marce senza etica. Perché lasciano quasi intendere che allora alle volte l’aborto è indispensabile, al di là del credo personale. E che quindi ci dovrebbe essere accesso diretto e gratuito sempre. E allora voi coi vostri feti sulla testa a manifestare in piazza, perdereste tutti credibilità. Io purtroppo non ho modo di verificare la fonte ma posso facilmente immaginarmi che qualcuna di voi si sia trovata in una situazione difficile, perché io sono empatica, io. Noi pro choice siamo empatic*, rispettiamo ogni cimitero di feti e la sofferenza di chiunque, e spesso vogliamo anche riprodurci, pensa te.

Io sarei per un rispetto generale della sensibilità e dell’intimità dell’essere umano più che di un ammasso di cellule. Oppure su un rispetto della proprietà visto che il termine va di più. Perché non puoi costruire un mondo sulla proprietà privata e poi negare alle donne quella del proprio corpo.

Ciao, ti ricordi quando mi hai stuprata?

Trigger Warning: Violenza psicologica, stupro, victim blaming

Premetto che mi sono rotta le pigne delle narrazioni melodrammatiche, e il mio #metoo è decisamente più un #purio ma l’argomento è forte quindi ho ritenuto necessario rispettare la sensibilità altrui. Non siete costretti a leggere l’ennesima storia di stupro, e mi fa paura la parola anche a me. Poi solitamente vi pubblico cosine di scrittura creativa, quindi se volete fuggire perché non è il momento, lo capisco. Ringrazio coloro che andranno avanti considerate le premesse.

Ci ho messo più di tre anni ad usare la parola con la s., e preferisco tuttora dire che sono stata vittima di violenza o che mi hanno costretta a fare sesso. È stata la mia psicologa a dirmi che quello che le stavo raccontando era a tutti gli effetti, senza alcun minimo dubbio interpretativo, una violenza sessuale. E sentirselo dire non è stato bello, perché non volevo fare la vittima. Specie dopo anni. E quello che succederà con questo articolo è che riceverò un sacco di “mi dispiace”, “oh, non lo sapevo”. Lo so che non lo sapevate, non lo sapevo neanche io. Era stata una cosa così brutta che l’avevo cancellata dalla mia memoria e ne avevo parlato in maniera veramente vaga e autoironica, colpevolizzandomi lì per lì.

Il motivo per cui ho deciso di tirare fuori questa storia è che ho pensato che se la me di qualche anno fa l’avesse letta forse si sarebbe comportata in maniera diversa, si sarebbe forse voluta più bene. Vorrei avesse uno scopo didattico, un’educazione al consenso che manca da entrambe le parti troppo spesso. Il fatto che fra le donne giri sempre di più lo slogan “Rispetta te stessa, impara a dire di no” vuol dire che per un po’ di tempo i nostri no avevano l’impatto di una vaga eco lontana, fuori da comuni sistemi di comunicazione, dei no estranei al linguaggio, un po’ alieni. Io non credo che uno possa nascere senza amor proprio ma credo che sia molto facile che impari a negarselo nella società in cui vive.

Nonostante io già all’epoca non fossi estranea agli ambienti femministi e qualcosa a riguardo avessi letto, non sono stata minimamente in grado di reagire. E non parlo del momento stesso in cui avveniva la violenza, di quello non mi incolpo più dopo aver letto che ci sono studi specifici sull’immobilità delle vittime, ma del dopo. Avrei dovuto denunciare, avrei almeno potuto tentare, avrei almeno potuto descrivere la cosa per quello che era. E invece ho continuato ad uscire per settimane con questo ragazzo, che mi mandava almeno sei selfie al giorno, che non sembrava minimamente percepirmi come un essere umano, che mi chiamava la sua ragazza nonostante io avessi messo in chiaro che stavamo solo uscendo assieme, e mi toccava il sedere in pubblico come fosse-non lo so io-roba sua.

Ma voi vorrete i particolari adesso, perché chi ve lo dice che non sto esagerando? Che in fondo, dai, ci stavo e che tutta la caterva di sintomi psicosomatici che sono comparsi dopo sono una curiosa coincidenza, qualcosa che viene da quel regno estraneo al reale dove vagano tutti i no inascoltati e che forse non esiste. A questo punto vorrei ringraziare la mia amica Melissa, perché se non avesse avuto il coraggio lei, da giornalista, di metterci la faccia e raccontare il suo s., non ce l’avrei mai fatta neanche io.

Era un pomeriggio soleggiato ed era la prima o la seconda volta che uscivo con questo soggetto. Non mi ricordo cosa avevamo fatto ma era qualcosa di tranquillo tipo prendersi un gelato, camminare in centro o pianificare come riprenderci i mezzi di produzione. Mi dovrebbe riaccompagnare a casa in auto ma mi chiede se voglio invece andare da lui. Io, che non sono nata ieri, gli dico esplicitamente che sì, ma non ho intenzione di fare sesso con lui. Lui ride imbarazzato, credo per l’imbarazzo ma onestamente non lo so più, e dice che vuol solo farmi vedere casa sua e che ci sono pure i suoi. Dico che va bene, mi sento stranamente rassicurata dal fatto che ci sono le persone che lo hanno generato, e il pomeriggio prosegue tranquillo. Mi fanno vedere la casa, ci sono dei murales carini, la casetta in fondo all’orto e un gatto tanto tenero. Dopo aver mostrato che ragazzo per bene con la famiglia per bene lui sia, insiste per andare in camera sua. Io, che continuo a non essere nata ieri, chiedo che cosa ci sarà mai di così interessante in camera sua. È la camera di quando era piccolo, adesso in realtà abita da solo per via del Dottorato e non c’è praticamente nulla. “Ti faccio vedere i libri”. E chi penserebbe di venir stuprata da uno che ti dice che ti fa vedere i libri? Parecchie persone, perché le due cose non hanno la minima connessione. Mentre fissavo la libreria, piena di interessanti graphic novel politiche e vecchi libri scolastici, il soggetto chiude la porta a chiave. Quando gli ho chiesto perché lo avesse fatto non mi pare di aver ottenuto una risposta, o forse non gliel’ho chiesto, pensando che fosse normale magari per lui chiudersi a chiave in camera perché c’è gente che lo fa. Io non l’ho mai avuta la chiave di camera mia, ma anche l’avessi avuta non l’avrei usata per stuprare qualcuno, vi assicuro che l’idea di fare sesso con qualcuno di insicuro della cosa già mi spegne assai, figuriamoci se voglia dire andare contro la sua volontà. Ed ecco che viene in gioco la mia, di volontà. La stanza è chiusa, io continuo a rileggere tutti i titoli della libreria, come in un mantra escapista, e lui si siede nell’unico posto dove ci si può sedere ovvero il letto. Io continuo a mantenermi lontana ma lui comincia ad essere più insistente del mantra nella mia testa. “Dai vieni, siediti un po’ qui”. Non mi ricordo neanche se riuscivo a guardarlo negli occhi, ma dopo un po’ mi sono seduta, mi pare dalla parte opposta. “Vieni qui”. Credo di aver detto no numerose volte, già lo avevo detto prima, ma come ho detto prima rimanevano un po’ nel regno alieno del nulla. E poi ci sono finita io, rigurgitata dal buco nero. Ho smesso di oppormi a qualsiasi cosa, ho provato a lamentarmi del fatto che le persiane fossero alzate, che io non faccio l’amore con così tanta luce, non mi piace. Ma tanto quello lì non era mica fare l’amore. “Ma, no, dai, sei bellissima”. Ci sono pochi momenti nella vita in cui si vorrebbe essere brutte, questo è uno di quelli. Ho sperato che improvvisamente provasse un qualche ribrezzo e si allontanasse schifato ma non è successo ed è riuscito a spogliarmi. Ero una marionetta, mi si poteva muovere a piacere. Poi ad un certo punto però, fortunatamente, mi sono rotta. Sono scoppiata in un pianto nervoso con singhiozzi così forti che, uhm era meglio fermarsi anche per lui. Non capivo cosa mi stesse succedendo, ero anche imbarazzata per la reazione. Mi sono messa in un angolo del letto e ho smesso di rispondere a qualsiasi cosa. Non lo sentivo più. Non lo so quanto sono stata in quelle condizioni, mi ricordo che continuavo a tremare ma non mi pareva di avere freddo. Dopo un incerto lasso di tempo lui mi chiede: “Stai meglio? Possiamo continuare?”

Come è andata avanti ve l’ho già detto. Volevo sistemare le cose, volevo fare finta di nulla, mi sono data la colpa per anni e si è susseguita una lista di cose banali successe ad altre millemila persone perché il pattern è sempre maledettamente uguale. Quando ho chiuso, qualche settimana dopo, con quello che non era neanche il mio ragazzo, lui ha commentato dandomi, con un’incredibile originalità, della vacca.

Per generazioni abbiamo creato questo immaginario dello stupro di notte, nel vicolo, dello sconosciuto maniaco, mentre le statistiche parlano chiaro: sono gli amici, sono i famigliari, sono i mariti, sono quelli con cui esci che ti presentano i genitori. Ed è bene che questa cosa sia sempre più chiara, che se sento un’altra volta la storiella degli immigrati cattivi giuro che mi levo la mascherina solo per sputarvi. E basta con “succede nelle periferie” e basta con i “giganti buoni” e i “vecchietti arzilli”, vaffanculo agli “amori non corrisposti” e i “raptus di rabbia”.  Sono cresciuta con una cultura sessista e misogina, ho interiorizzato un odio per il mio stesso genere e il victim blaming, ho stigmatizzato la mia sessualità e ho finito per essere l’ennesima vittima inconsapevole. E non sapete quante di queste storie continuo a sentire tutti i santi giorni e non sapete quanti no rimangono nella dimensione sensibile parallela, quanta gente viene risucchiata più o meno silenziosamente.

Ma ora basta., veniamo al titolo. Il soggetto mi ha ricontattata durante il lockdown; è successo un po’ a caso e grazie a questo blog, e mi ha contattata come se nulla fosse comestaicosafaiehilcovid. Non solo l’impunità ma una spensieratezza che mi ha uccisa nuovamente. Poi il mio ragazzo mi ha convinta: “Parlaci!”. Ebbene, esistono conversazioni che non esistono e iniziano con “Ciao, ti ricordi quando mi hai stuprata?”. Esistono luoghi in cui era abbastanza normale che non ero tanto sicura, già, ma che lui l’ha pagata col karma dopo, e si dispiace davvero, ed è contento che questa conversazione mi aiuti in qualche modo. Non ha negato nulla, ma ha negato tutto. E io avrei potuto denunciarlo, piangere un pochino più forte, sbattere contro la porta, picchiarlo fino a che non rispettava i miei spazi, indossare una t-shirt con scritto “No means no” magari in italiano, avrei potuto imparare il russo meglio, tagliarmi i capelli più corti, leggere meno Jane Austen e avere un altro nome. Avrei potuto fare tante cose, ma chi mi avrebbe comunque creduta? La verità? Nessuno. Bisogna arrivare al sangue, alle botte visibili, altrimenti è tutto solo un ricamo della percezione su un tessuto di normalità sbagliate.

Ed è con questa consapevolezza che scrivo questo articolo, riportando indietro la vecchia me che era rimasta bloccata nel buco nero e promettendovi che il gender è solo la prima tappa. Che vi decostruiremo tutto, un pezzetto alla volta, vi leveremo da quel piedistallo dove vi siete ritrovati ma lo faremo con la didattica e una narrativa nuova. Che scriveremo cosa deve essere scritto, che diremo quello che deve essere detto e che coi nostri no ci costruiremo un mondo migliore dove se uno ti stupra, almeno ti fa la cortesia di accorgersene. Perché non ci sono solo singoli colpevoli, c’è un problema strutturale le cui fondamenta stanno solo leggermente iniziando a vacillare. E io voglio vedere queste statue dorate cadere come è caduta la mia dignità di persona quel pomeriggio. Voglio che tremiate almeno un quarto di quanto io stia tremando mentre scrivo questo articolo.

Voglio che la sensibilità finisca al potere. Non voglio vendetta, voglio la rivoluzione.

Se sei vittima di violenze chiama il 1522 in Italia e lo 08000 116 016 se sei in Germania ( Il Beratung risponde in 17 lingue, fra cui l’italiano ). Chiama, dai.

Meno mimose e più pantaloni unisex, ovvero perchè sono femminista

Quando ero piccola volevo chiamarmi Richard. Ci sono ancora amici dei miei genitori che scherzano su questa cosa, che per un lungo periodo della mia vita ho detto di chiamarmi Richard, o Elliot.
Parto da questo per spiegare perché, essendo femminista, credo che la battaglia contro gli stereotipi gender sia tremendamente importante.
Richard era il bambino di Pagemaster, con la grande avventura nel mondo dei libri e la casa sull’albero, Elliot era il bambino di ET con i sentimenti così puri da riuscire a voler bene ad un mostro marrone venuto dallo spazio con un vocabolario decisamente limitato, io ero una bambina arrabbiata. Non lo sapevo ancora perché, ma ero una bambina arrabbiata che non sapeva nulla del Bechdel test o del femminismo, ma ero una piccola Mafalda che si affacciava senza saperlo su una esistenza subdolamente sessista e per di più in generale sessualmente repressa. Non lo sapevo perché ma ci stavo male e stretta, sin dall’inizio, nel patriarcato.
Dopo che nessuno accettò il fatto che io volessi chiamarmi Richard e non Alice come quella svampita bionda col vestitino nel paese delle meraviglie, iniziai a fare una piccola rivoluzione negli abiti. Volevo essere come i maschi,che si vestivano con le stampe mimetiche. Uscii di casa una mattina d’estate con i miei pantaloncini militari in perfetto abbinamento con la cannottiera senza spalline e trovai mia nonna sulla porta che mi disse che non avrei mai trovato marito conciata così. Andai al mare molto triste, perché pensavo che quello volesse dire vivere una vita piena di solitudine, e non mi piaceva l’idea, io un marito lo volevo.
Ancora senza marito ma con già due fidanzati alle spalle, in prima elelentare mi comprai dei pantaloni unisex, dei bermuda azzurri con i fiori hawaiani come andavano quell’anno. Non facevo che ripetere alla gente la parola unisex, un po’ perché era una bella parola che suonava bene e un sacco misteriosa, un po’ perché per me era una grandissima conquista: non stavo indossando qualcosa per maschi ma qualcosa di unisex, lo potevo fare, potevo gustarmi quelle ampie tasche piene di figurine senza sensi di colpa.
Iniziai a camminare con le mani in tasca, alla ricerca di modelli, e mi prese in generale una fissa per l’azzurro. Volevo tutto azzurro e per il mio settimo compleanno avevo delle New Balance Azzurre, una salopette di velluto a coste azzurro, un dolcevita azzurro, i collant di lana azzurri e due codine legate rigorosamente da gommini azzurri. Questa sottospecie di puffo in cui mi ero trasformata, aveva esplicitamente detto alle sue amiche che non voleva assolutamente niente di rosa e nessuna bambola. Qualche sventurato mi regalò una Barbie e mi venne da piangere, rovinando la celeste atmosfera che volevo creare. La simbologia dei colori è molto importante e per anni sono stata la No Rosa , era molto importante per me, una sottospecie di scelta politica. Perché l’azzurro sì e il rosa no è facile da capire. Il mio gioco preferito a ricreazione era Maschi contro femmine perché volevo far vedere ai maschi che ero forte come loro.
La moda maschile dell’epoca nella piccola città di mare dove sono cresciuta veniva dalla cultura americana legata al surf. I brand che i più belli della scuola indossavano alle medie erano la Quicksilver, la O’neill e la Rip Curl. “Da grande voglio mettermi con un surfista” scrivevo sul diario, ma almeno avevo smesso di pensare al matrimonio. Senza secondi scopi iniziai a fare surf e mi piacque da matti. Mi divertivo un sacco, ed ero una che generalmente si nascondeva durante l’ora di educazione fisica. Mi piaceva così tanto cavalcare le onde che alla fine riuscii a convincere i miei genitori a comprarmi una tavola. Il bagnino mi fermò la prima volta dicendo che una bambina da sola in mare con la tavola non ci poteva andare, però vedevo i ragazzini poco più grandi di me fare esattamente la stessa cosa. Ok, non ero un colosso di bambina ma sentivo che anche questo aveva a che fare con qualcosa di ingiusto. Quando trovai un’altra ragazza che faceva surf mi sembrò di aver trovato la mia compagna di vita. Qualche tempo dopo apparve la Roxy ovvero la versione femminile della Quicksilver e, per quanto mi facesse arrabbiare che ci fosse quel cuore rosa coi brillantini su tutti i capi di abbigliamento, mi sembrò una conquista e mi comprai una felpa che divenne la mia felpa preferita nonstante mi stesse gigante.
Credo di aver iniziato a fare pace con la mia parte femminile grazie ai libri di Bianca Pitzorno. Le bambine nei suoi romanzi erano intelligenti, spiritose e disubbidivano spesso. Dopo aver conosciuto Hermione Granger decisi che c’era ancora un sacco di speranza per il genere umano. Iniziai a fare teatro e ad uscire con un ragazzo della compagnia, il surf se ne era andato lasciando il posto a quel pop punk anni novanta coi polsini a righe nere e rosse. Mi stava simpatico, sia lui che il punk, quando si avvicinò per baciarmi per poco non fugii schifata ma alla fine riucii a concentrarmi e farmi baciare a bocca chiusa. Quasi la stessa settimana una ragazza della mia compagnia nei camerini una sera mi chiese se mi sarebbe piaciuto baciarla, ed ebbi una sensazione strana simile al senso di colpa. “Sì, ma prima devo baciare Y per capire se mi piacciono gli uomini”. C’era una precisa gerarchia nella mia testa anche se non sapevo da dove arrivasse, chi ce l’avesse messa. Ruppi con Y ma si dilaniò anche la mia amicizia con questa ragazza. Più o meno la stessa identica situazione successe due volte, e non avevo ancora compiuto diciotto anni. Quando arrivai finalmente ad avere il mio ragazzo ufficiale, a cui volevo davvero bene e dal quale ero veramente attratta fisicamente, avevo una visione molto contorta di cosa sarebbe successo nudi in camera da letto. Quello che sapevo è che lui doveva entrare e venire, e mi sarebbe piaciuto. Il problema fu che io avevo iniziato ad avere orgasmi masturbandomi all’età di sette anni, età in cui mi iniziarono a crescere i peli sotto le ascelle e in cui iniziarono a prendermi in giro perché nessuna bambina li aveva. Avevo sette anni quando credetti di essere magica come le Witch dove aver avuto il primo orgasmo in camera mia mentre giochicchiavo con le mie mutande. La mia prima volta fu decisamente il contrario, niente di più lontano da un orgasmo. Chiesi in giro, stupefatta che questa grande cosa che doveva essere il sesso si fosse rivelata una delusione tremenda. Mi rispose una mia amica, con una versione poco evoluta di Cioè alla mano, che era molto difficile che una donna avesse un orgasmo.( Se continuate a pensare che questo non sia un fatto di sessismo, avete tuttora una vita sessuale molto infelice e mi dispiace)
Potrei continuare a fare un elenco biografico pseudo ironico, ma probabilmente vi annoierei. Sono femminista sin da piccola, perché ho sempre considerato tutti uguali e il sessismo mi ha reso la vita enormemente difficile. Quando la gente al tavolino tira fuori la simpatica domanda sul perché sono femminista non so come fare a rispondere. Questa è la risposta: ho sempre voluto essere un maschio. Ma non perché avessi un rifiuto del mio corpo che andasse al di là del normale disgusto adolescenziale, ma perché ho sempre percepito il modo diviso in due parti, una rosa e una azzurra, e quella azzurra aveva le cose più fighe. Sono sicura che nel frattempo ci fosse qualcuno che doveva essere blu per forza, ma a cui piacevano i vestitini rosa.
Quando ero piccola mio padre voleva prendessi lezioni di piano, ma il problema è che all’epoca a suonare il piano ci andavano tutte quelle bambine con le Barbie e il vestitino di San gallo coi sandali coi brillantini, e io associavo il pianoforte alle loro faccine angeliche. Accidenti a me iniziai troppo tardi, quando ebbi abbastanza sale in zucca da capire che non andavo contro la mia politica suonando quello strumento pieno di tasti bianchi e neri, quelle bambine suonavano già Chopin.
Sono femminista perché non voglio che le nuove generazioni crescano con questa opposizione in testa, voglio che si possano esprimere come meglio riescono, ed abbiano un’ entrata in questa esistenza il più libera possibile da preconcetti che andranno ad influenzare la loro vita da adulti in maniera irreversibile. Sono femminista perché c’è ancora il disgusto per il corpo della donna, oltre al salario differenziato. Sono femminista perché non voglio che le nuove generazioni pensino sino ai 15 anni di età che esiste solo il sesso orale maschile, come è successo a me fino a che non ho visto una scena in un film sull’età vittoriana della BBC. Sono femminista perché non capisco perché il sangue mestruale sia quasi un tabù mentre lo sperma no, anzi. Sono femminista perché voglio che le cose cambino e per farlo servono sia le leggi e le campagne politiche sia una serie di prodotti culturali nuovi, coscienti, che educhino all’uguaglianza.
La giornata della donna non è proprio una festa. Per me, è il giorno della lotta per i pantaloni unisex. Meno minose, più pantaloni unisex.