OMOFIS_ Curriculum Vitae di una generazione

Non si è fatto altro che parlare di home office, durante questo primo Maggio di Quarantena. La definizione di smart working, molto simile a quella di flexitime, è quella di un lavoro con determinati orari fissi ed altri flessibili, o sempre flessibile. Cugino dello smart working è appunto l’home office, il telelavoro. Qui la definizione non si concentra sulla flessibilità ma sul luogo. E quanto mi piacerà parlare di luoghi durante questo Lockdown.

Ci stiamo tutti concentrando per lasciare un segno, una testimonianza di questo Zeitgeist perché è un pezzo di storia. Tutti si sentono autorizzati a pubblicare qualcosa, se non obbligati. Ebbene non c’è bisogno di una pandemia per trovare dello Zeitgeist. Io nei racconti della #queneauchallenge ci inciampo spesso, e in realtà basta leggere il mio curriculum vitae.  

Pare che l’equilibrio casa-lavoro sia l’indice con il quale misurare il tutto, e allora farò così ma partirò dall’inizio.

 Sono nata del 1993 e, qualche anno di scuola dopo, come molti secchioni della mia generazione ho iniziato a guadagnare con le ripetizioni. Inizialmente erano i figli degli amici di famiglia, poi la clientela si è allargata a tutti coloro che non capivano i polinomi. La mia capacità imprenditoriale non era il massimo, non c’erano ancora i social, ma anche se non avevo la self promotion potevo contare sul passaparola. “Ho saputo che lei dà ripetizioni di materie umanitarie anche” “Umanistiche, intende” “Tipo italiano?” “Sì”. L’omofis all’epoca era una vera pacchia, avevo sempre le caramelle sul tavolo e dopo il primo mese riuscii a comprarmi il mio primo portafoglio da sola. Ah, il lavoro, che soddisfazione!

Il lavoro da casa durò poco, e anche lo smartworking del poter dire “No, Marco, ho io la verifica domani, il ripasso a te lo posso fare Giovedì”. Lavoro indipendente ma ancora problemi ad ottenere il permesso di uscire la sera. Durante l’università un po’ continuai e un po’ cominciai ad accorgermi che sarei dovuta uscire di casa per chiamarlo davvero lavoro, e forse avere un contratto. In quegli anni i contratti comunque non andavano tanto, andava molto di più l’omofis e con i miei amici secchioni cercammo di fondare una comunità di ripetizioni. Non fece esattamente la fine della Apple. Mi ritrovai in estate a fare un’ora di bus e una passeggiata in salita per dare lezioni di italiano a dei bambini russi molto carini. Qualche altro marmocchio di nazionalità varia, e poi decisi che era il momento: “Devo fare la stagione”.

Da noi fare la stagione, ovvero lavorare come uno schiavo solitamente a nero e con orari improponibili tutta l’estate, era un po’ l’unica per fare dei soldi che si potessero chiamare tali. Avevo amici che erano abituati a fare la stagione e mi era sempre parsa quella cosa che mi avrebbe fatto svoltare. Probabilmente l’angolo. Trovai, dopo aver letteralmente consegnato a mano a tutti gli alberghi del lungomare il mio curriculum vitae, un posto in un ristorante abbastanza vicino casa. Non era omofis ma era molto flessibile nel senso che era a chiamata. Mi aveva trovato il posto una mia amica e mi aveva raccomandata. Col Cv che avevo, da intellettuale inutile, senza raccomandazioni non mi avrebbe mai presa nessuno. Un mio amico che faceva filosofia ci mise un sacco per essere accettato come aiuto pizzaiolo. La gente crede che i meme non esistono, e si sbaglia. C’era sempre stata una netta divisione dei ruoli, e se avevi passato i pomeriggi a fare i certamen di latino non è che potevi venirtene fuori con la storia di voler fare il cameriere, perché era un sogno irrealizzabile. Nel mio posto da raccomandata le cose si fecero molto dure subito, venivo bullizzata persino dall’altra cameriera. “Quando ho detto di pulire le posate con l’aceto non intendevo quello, ora lo devi rifare”. Ci rimasi fino a mezzanotte e mi immaginai tutti i punti in cui avrei potuto infilargli la forchetta e farle molto male. Quell’estate durò poco perché il troppo lavoro mi fece ammalare, e non in senso metaforico. Bastò mancare il giorno di Ferragosto per farmi licenziare senza neanche aver mai visto un contratto di assunzione. Mesi dopo, dopo numerose telefonate, mi toccò recarmi di persona per prendere quei 2,50 euro l’ora del periodo di prova, senza il conto delle ore. Forse avrei dovuto dargli ripetizioni di matematica.

La stagione finì prima del solito, e io mi ritrovai sola in un imbarazzante colloquio per poi ricominciare l’inverno senza un soldo guadagnato con il mio sudore. “Lei ha scritto che parla inglese, ora vediamo” . Ero appena tornata dall’Erasmus in Inghilterra. “Sono appena tornata dall’Erasmus in Inghilterra”. Il tizio mi chiese i nomi dei cibi e quando iniziai a parlare in inglese mi disse: “No, ma io non lo so così bene eh, ci serve gente che parli le lingue ai tavoli e basta”. Non che per questo mi avrebbero pagata di più, aumentava solo il livello di sfottimento.

Ritornai al caro, vecchio omofis e mi informai se potevo fare qualcosa nel sociale, aiutare gli altri. Finii in un centro per migranti e rifugiati ad insegnare Italiano. Non era omofis ma quasi. Avevo le chiavi, una motivazione etica e a volte pure il riscaldamento. Una delle esperienze migliori della mia vita, il volontariato si tramutò in lavoro vero. La cosa non poteva però durare a lungo, erano sempre incerti i finanziamenti, se come quando e perché. Abbandonai il luogo a malincuore.

Ed eccomi che rappresento il giovane italiano che scappa all’estero per trovare lavoro, senza neanche saperlo. I giornali si interessano alla mia storia, divento uno strumento da piedistallo o da pomodori marci, a seconda dei casi. “Abbasso tutti i traditori dell’Omofis! In Italia il lavoro c’è per chi ha voglia di lavorare!” “L’attuale governo fa schifo e per questo i giovani si trovano a fuggire dall’Omofis, questi angeli coraggiosi”. Porca pigna. Dall’altra parte ero l’immigrata che ruba il lavoro e allo stesso tempo chiede i sussidi statali. Ero lo Zeitgeist in persona e mi portavo l’Omofis nel cuore. Non so quanti tedeschi fremessero all’idea di fare le Au-Pair, fatto sta che avevo di che vivere senza chiedere ai miei genitori, che è quella cosa che uno per crescita personale dovrebbe essere in grado di poter fare in un paese civile (durante e) dopo gli studi. Almeno in un paese fondato sul lavoro, immagino.

Sembrano carini, sorridono con tutti i denti, mi pagano al mese, ho un contratto e posso vedere la Grande Città. Era tutto Omofis, nel senso che l’equilibrio casa-lavoro non era un equilibrio ma un’unica cosa. Lavoravo dove vivevo ed ero potenzialmente sempre in servizio. A quanto pare avere un contratto non voleva necessariamente dire avere anche molte tutele. Avevano stampato un contratto facsimile degli anni 60 scritto in quella lingua che non conoscevo e mi avevano manipolata sapientemente fino a far sparire il giorno libero. Potevo uscire solo quando volevano loro, organizzarsi la vita era abbastanza impossibile e a cena mangiavano tutte le sere sempre e solo pane e affettati. Al cosiddetto Abendbrot, e ai bambini, finii per affezionarmi ma dopo sei mesi riuscii per la prima volta a discutere in tedesco e mandarli a fanculo. Mentre mi sognavo ancora Maike che mi diceva che sotto al tavolo non avevo ancora pulito bene e che non potevo addormentarmi mentre la lavatrice andava, cercavo disperatamente un nuovo Omofis.

La seconda famiglia mi offrì un part time che copriva solo e soltanto l’affitto della casa sopra la loro. Ma era una famiglia carina, umana. Era un bell’Omofis fino a che non mi sono finiti i soldi e in Germania sono cazzi se non puoi pagarti l’assicurazione sanitaria. Volevo tornare all’Università, il mondo del lavoro forse non era fatto per me, ma prima mi serviva un livello più alto di tedesco. Nel frattempo i miei amici mi invidiavano la Grande Città, e credevano che me la godessi come un gufo. Qualcuno di loro era in procinto di iniziare la stagione, qualcuno aveva trovato miracolosamente qualcosa di nuovo e molti mi chiedevano se secondo loro sarebbero dovuti partire. Pochi mesi dopo qualcuno partì, e nell’Europa Pre Brexit l’Inghilterra andava più della Germania. Tutti quei cazzo di verbi in fondo non se li voleva sorbire nessuno neanche per l’Omofis più soffice del mondo.   

Il Job Center mi disse: “Non possiamo pagare tutti quelli dell’unione Europea!”. Per un attimo mi chiesi se la Germania non fosse in Europa. Feci loro causa e lì iniziò il mio Addio all’Omofis. Un po’ come Lucia ai monti, Casa non la vidi più. Avevo tre lavori, due lavori al giorno e il terzo per il weekend. Non ero mai ferma e a volte mi capitava di tornare a casa la sera esausta e accorgermi di mobili che non ricordavo di avere. La mattina dovevo alzami prestissimo per andare a fare supplenze negli asili, che significava soprattutto cambiare pannolini alla velocità della luce, il pomeriggio avevo i bambini più grandicelli di casa e il fine settimana lo passavo nel Museo del Silenzio, che è in effetti l’esatto contrario di un asilo. Esperienze forse molto belle se scisse, ma insieme mi portarono ad un terribile Burn Out corredato da Crisi Esistenziale dei 25 Anni ( Accertata da scientificissimi articoli del Vice) e non mi fecero neanche diventare benestante.

Con l’ammissione all’Università seppi di poter mandare, amorevolmente, a cacare almeno due lavori grazie alla borsa di studio. “Ce li avessi io tre lavori, ahaha, ma quanto lavoro c’è in Germania?”. Non so quanto ce ne fosse all’epoca ma c’erano inserzioni anche nella metro.

Abbandonai per prima l’Agenzia Interinale. Gli asili mi mancano a volte, ma non mi manca l’azienda che mi manda a lavorare di notte per poi dirmi che però la notte non è pagata perché potevo dormire. Peccato che stessi dormendo in un centro per bambini che sono stati allontanati dalle famiglie dai servizi sociali e ci fosse Moritz che andava a prendere i coltelli in cucina la notte e Hans che teneva la radio sempre accesa.

Riassaporare l’idea di avere del tempo libero di nuovo, di poter visitare nuove cose e tornare a scoprire Berlino, mi riempì di gioia così tanto che pensai di iniziare a vendicarmi. In maniera metaforica. Ora che sapevo il tedesco aprii la partita iva e iniziai a tradurre negli uffici pubblici agli italiani appena arrivati. Quando riuscivo a difendere qualcuno era un po’ come tirare una bomba carta al sistema, e anche se non ho mai tirato una bomba carta sento di poter agilmente usare la metafora grazie ai miei studi su Zerocalcare. Non ci guadagnavo un granchè, e avevo mantenuto il lavoro nel Weekend, ma era una soddisfazione incredibile quando i clienti ottenevano i sussidi. La cosa assurda del Job Center è che ti parla solo in tedesco e un mediatore vero (non quelli morali come me) non se lo può permettere nessuno di quelli che ha bisogno dei sussidi. “Brava figliola, trova i buchi nel mercato, crea l’offerta” diceva dentro di me nessuno.

Uno dei miei clienti un giorno mi fa “Ma perché non me lo insegni il tedesco?”. Ed eccoci lì, il cerchio della vita, l’Omofis. Università e Ripetizioni Private, stavolta però con partita Iva perché qui non è proibitivo essere legali. Ero tornata me, era come festeggiare il Primo Maggio tutti i giorni.

E questo primo Maggio 2020 io l’ho passato ripercorrendo la mia storia per ricordarmi che se adesso posso permettermi il formaggio vegano alle mandorle è solo merito mio. Perché chi dice che più lavori più guadagni, è un cospiratore neoliberale col distacco dalla realtà. L’importante nella vita è l’Omofis, lavorare sentendosi a casa.

Il mio Omofis per adesso la crisi non l’ha sentita, e mi ritengo molto fortunata. Ho il telelavoro con orari che decido io con un’azienda che ha sede comunque a 30 minuti da casa mia, non rischio il licenziamento se mi viene la cistite ma anzi mi pagano la malattia, e sono lì grazie alla mia laurea triennale. Una cosa così, qualche anno fa, non sarei neanche riuscita ad immaginarmela. Se dovessi perdere il lavoro, o dovessi andarmene, saprei reinventarmi. Non siamo di certo una generazione che avrà il lusso o l’onere di fare sempre lo stesso lavoro, stiamo tutti sperando che crolli il mercato immobiliare così da poterci permettere forse una casetta e quello che vogliamo, in fondo, è solo della dignità e un po’ di Omofis.

Fate delle leggi che lo rendano possibile. O aspettatevi le bombe carta.

E voi come descrivereste il vosto Omofis? Che esperienze avete avuto col mondo del lavoro in Italia e all’estero?

Tutta la verità sul Coronavirus!!!!!

“Le nuove di tali scoperte volavan di bocca in bocca; e, come accade più che mai, quando gli animi son preoccupati, il sentire faceva l’effetto del vedere. Gli animi, sempre più amareggiati dalla presenza de’ mali, irritati dall’insistenza del pericolo, abbracciavano più volentieri quella credenza: chè la collera aspira a punire: […] le piace più d’attribuire i mali ad una perversità umana, contro cui possa far le sue vendette, che di riconoscerli da una causa, con la quale non ci sia altro da fare che rassegnarsi” (Alessandro Manzoni, “I Promessi Sposi”)

Se state leggendo perché davvero credevate che io potessi avere la verità in tasca, temo di dovervi deludere. Ma l’articolo magari merita lo stesso, andate avanti almeno un pochino. Se state leggendo perché vi siete rotti le scatole di vedere titoli come “Tutta la verità” siete nel posto giustissimo. Se siete qui perché siete mia madre, grazie mamma mi manchi.

In questi giorni, in una Berlino dove ancora si può andare a lavorare ma non si possono formare gruppi di più di due persone (escluso il nucleo familiare), e in un’Italia bloccata in quarantena da qualche settimana, è iniziata la primavera. È veramente difficile accettare che ci sia un sole così stupendo mentre la gente continua a morire negli ospedali, senza aver neanche il tempo di dire ciao. Ma è così.

Il mondo è cambiato di colpo nel giro di qualche settimana, e scenari post apocalittici si sono avvicinati in maniera inquietante all’immaginario collettivo. Un virus molto contagioso e per alcuni letale ha rallentato l’economia mondiale e ha richiesto che l’essere umano riorganizzasse la sua socialità. Una catastrofe per gli estroversi, na pacchia per quelli che le distanze le hanno sempre agognate. In questo periodo ci si sente contemporanei, è come uno schiaffo di realtà che prende tutti, indiscriminatamente. Tutto il mondo ha lo stesso problema, chi più e chi meno, ma nessuno si salva. E in questo continuum di umanità si vedono chiaramente certe cose a cui prima non si voleva fare molto caso. E no, non sto parlando dei morti di influenza stagionale dell’anno scorso.

Se dovessero un giorno chiedermi di cosa ebbi più paura, nell’ essere parte di un avvenimento storico di questo calibro, risponderei: la gente. Le reazioni delle persone mi hanno spaventata molto di più del virus. C’è stata un’escalation di panico irrazionale (perfino nella pragmatica Germania) e poi un conseguente abbandono totale della ricerca della verità. Non che queste cose non le vedessi prima, ma almeno riguardavano un gruppo circoscritto di personaggi, non il globo.

Il panico è una roba più contagiosa di qualsiasi corona virus, perché te lo chiappi anche a distanza. Basta che tu abbia i social, o degli amici coi social. Il panico iniziale era necessario, è servito anche a me perché prendessi la cosa più sul serio di quanto non la stessi prendendo inizialmente.

È bastato qualche giorno perché fosse chiaro il livello di emergenza e che non si trattasse di esagerazione mediatica. Quindi il panico può aiutare. Ma poi la gente ha iniziato a svaligiare i supermercati e sono finiti i fornellini da campeggio da Decathlon.

Si muore tutti, gli zombie, non si troverà cibo, mannaggia non ho neanche un pile della Quechua in casa e non sopravvivo neanche mezza giornata in una tenda. Dovevo comprarmi quel coltellino svizzero anni fa, quando ero ancora in tempo. Uccideranno prima gli immigrati, ci faranno ostracismo quando ci saranno le derrate alimentari e poi dovremo intraprendere un grande viaggio clandestino per ritornare in patria.

Dopo il si muore tutti, è scattato il Loro sanno qualcosa che io non so.

Perché proprio la carta igienica? Cosa si può costruire con la carta igienica che io non so? Possibile la gente cachi così tanto? E l’acqua? No, deve esserci una ragione oscura. Non si trovano più le mascherine ma non dicevano che non servivano? Non sarà mica che io ora rimango senza e la mettono obbligatoria per uscire e non posso più uscire. Oh, cazzo.

Dopo aver elaborato una serie di idee alternative alla carta igienica (che fra le altre cose se ci si pensa è inutile e inquina un sacco anche la sua produzione), mi sono accorta che non c’era alcuna verità nascosta. Che il cibo sarebbe sempre stato lì, a meno che qualche stronzo non avesse deciso di comprare il triplo di quello che compra di solito. Qui si dice fare Hamsterkauf perché Hamster vuol dire criceto e kaufen comprare e non vi devo dire io quello che fanno i criceti con le guance, immagino.

Superata la prima settimana, mi sono adattata psicologicamente e ho cominciato ad osservare in maniera più distaccata certi comportamenti.

Quello che è venuto dopo il panico è stata una pandemia di intolleranza, saccenza, moralismo e complottismo. Io so qualcosa che tu non sai è divenuto il nuovo mantra. Improvvisamente l’identity politics, che già ci aveva rotto abbastanza le pigne, si è scissa e per mitosi ha dato vita ad una serie infinita di partiti presi. Per i vegani, venivano contagiati solo quelle merde dei carnivori, perché avevano uno stile di vita malsano e crudele. E i fumatori? Eh, ma se uno ha dei vizi poi non si può aspettare che la società si fermi per lui. Per gli anti-vaccinisti, che qualcuno pensava ingenuamente di riuscire a convertire in questa epidemia, si ammalavano le persone giovani e sane solo se avevano fatto il vaccino influenzale. Per gli ambientalisti, era stato l’inquinamento sfrenato. Per il centro sinistra i tagli del centro destra, per il centro destra i tagli del centro sinistra. Per i sovranisti, era tutto questo melting- pot che aveva portato le malattie. Per gli omofobi, le unioni civili. Per quelli che volevano tenere le fabbriche aperte, quelli che vanno a fare jogging.

 Ognuno, con quella sua nuova piccola verità quasi religiosa offriva programmi di colpa e punizioni precisi. Improvvisamente la causa del corona virus era la stessa di tutti i mali. Che la gente dopo il panico cercasse sicurezze me lo aspettavo, ma non che accettasse quelle di tuttalaverita.com pubblicate sul gruppo di WhatsApp dei Rappresentanti dei genitori della 5B, o dei Tweet di Salvini.

O forse sì.

 E quindi ecco la mia versione di tutta la verità: il Coronavirus è un virus amorale. E prima lo accettiamo meglio è. Solo rispettando certi accorgimenti possiamo abbassare la curva di contagio, dobbiamo agire tutti insieme e poi sarà di nuovo tutto come prima.

O forse no.

La scienza ci fornirà determinate soluzioni e risposte ma bisogna aspettare e frenare le teorie fai-da-te (anche se, se uno cresce intere generazioni con film di spionaggio nella guerra fredda poi non si può aspettare altro). Accettare l’incertezza e allenarsi al non sapere, è un buonissimo esercizio contro l’ansia, oltre all’unica cosa buona da fare al momento.

Žižek dice che la situazione è troppo grave per farsi prendere dal panico e ha ragione, al contempo però non bisogna neanche fare il bagno nelle utopie più unicorniche. L’utopia non è la migliore cura contro la distopia, è il suo esatto contrario. Rassicurarsi dicendoci che “la terra sta guarendo” è controproducente perché non è vero. È stato bello immaginarsi i delfini nei canali di Venezia per qualche giorno, ma è stato inutile. Bisogna rimanere sull’attenti.

Sarebbe bello che questa crisi economica portasse ad un socialismo globale, io potessi permettermi una casa e tutti si accorgessero che la sanità sarebbe sempre dovuta rimanere pubblica e gratuita. Sarebbe bello. Ma i sistemi economici non si cambiano da soli, soprattutto non perché inizia a morire gente. Il capitalismo ha sempre ucciso. E un virus ai tempi del capitalismo uccide più coloro che non hanno certi privilegi di classe, non uccide i capitalisti. Anche perché quelli se ne lavano molto spesso le mani. C’è stata una speculazione incredibile su prodotti igienici e mascherine e vogliamo ancora raccontarci la buona novella che tutti diverremo empatici? Ma neanche il socialismo ci renderebbe tutti empatici. Uno degli errori più grandi della sinistra è secondo me proprio questa presunta superiorità morale, e ve lo dice una zecca buonista che continua a dare i soldi alle NGO nonostante non guadagni ancora abbastanza da dover pagare le tasse. Se vogliamo un cambiamento politico dobbiamo agire e non sperare nel miracolo.

 Se c’è una verità che mi ha insegnato il coronavirus è che sono le emozioni a muovere tutto. La politica, l’economia, la morale e i lanciafiamme. Se la paura è il terreno fertile per le dittature, la prima cosa da fare sarebbe imparare a controllare le proprie emozioni, non paragonare la quarantena ad un lager. Se c’è una verità che mi ha insegnato il Coronavirus è che va bene anche quando una grande verità non c’è e che è molto umano accettarlo, come si accetta la primavera.

#queneauchallenge #esercizidistile #passatoremoto #33

PASSATO REMOTO

Si alzò, si stiracchiò e iniziò a ballare. Ascoltò e riascoltò i CCCP e nel frattempo sorrise ad una mattinata di sole tedesca. La scrittrice la fece poi inciampare, con quel controllo remoto della realtà che unici gli esseri scriventi ebbero sugli esseri scritti. Nell’altra stanza si sentì un grido di rabbia. Un ragazzo non fece funzionare il collegamento fra il wifi e la stampante e quella non stampò. Come in un telefono senza fili i due si salutarono, bambinescamente senza sentirsi. D’un tratto si trovò sola, l’essere scritto, con un marsupio e qualche volantino. Si incupì, si rattristò, e non capì bene il perché. Qualcuno scrisse sul marsupio ove inciampò: “Si visse meglio senza i nazisti”. La solitudine la prelevò e la portò con sé, molto indietro e senza la remota possibilità di salvarsi. A quel punto anche la scrittrice si sentì chiamata in causa ed entrambe si lacerarono nel tentativo di dividersi. “Fummo connesse, alla nascita”. La madre mise mi piace, nuovamente, ad un post; le due si sentirono sopraffatte da quel sentimento di governo dall’alto e immigrazione. Ma il sole splendette e splendè senza tregua. La ragazza che cadde, desunse e si dispiacque di non riuscire nella solitudine. “Mi sentii interconnessa ma senza il controllo della situazione” descrisse in terapia ore dopo. “Non è che non volli scrivere, è che non valsi abbastanza a me stessa”. Berlino tacque ma non l’assolse.