#queneauchallenge #esercizidistile #no-cioè #43

No-cioè raga non potete capì. Questa si alza e si mette a ballare. Ma così, eh, mica per un motivo. Pare una roba di Tik Tok e invece è proprio di fuori. Che la gente a Berlino è strana beh ma così. No-cioè, si alza, balla e va in salotto come se niente fosse. No-cioè, non so se fa colazione ma no, cioè in pijama. Ma lo sapete che vuol dire ballare in pijama? Sfi-ga-ta.No-cioè il salotto è un casino che non vi potete neanche immaginare. Pieno di roba per terra. No-cioè pure i volantini che saran lì da non so quanto. Il tizio invece, no-cioè raga peggio. Sta lì ad incazzarsi con la stampante come se fosse una persona. No-cioè concio a bestia pure questo. Deve stampare delle robe, fa dei versi strani. E poi, no-cioè questo raga è tipo il top del top, è tipo la corona del Burger King, è la tipa che no-cioè inciampa. Fa un volo da Paperissima, una figura di merda colossale, no-cioè. Bassina e magrina ma un botto eh, no-cioè, non sapete quanto ci ho riso. Non avete idea. Su un marsupio, no-cioè un marsupio politico, una roba con su scritto “No-cioè i nazi no però”. Poraccia che poi magari si è fatta pure male non lo so. No-cioè e poi lui che fa? Sbatte la porta e esce. Mi pareva in pijama ma non lo so come si veste sta gente che si atteggia. Ho fatto qualche foto e l’ho postata su Snap anche se ormai non lo usa più nessuno. Madò che ridere. E lei sta lì e pare che no-cioè, davvero? Pare che le pigli male. Un lo so che cacchio c’entra ma le piglia male si vede. No-cioè e quindi va su Facebook che dai via Facebook è da vecchi. Sta lì e guarda che l’ha likata solo su madre. Che roba patetica no-cioè. E poi che ti fa? No-cioè si ferma e si mette a guardà la finestra. No, cioè è estate a Berlino e questa si deprime al pc. Apre dei file scritti lunghi e non tocca la tastiera, no-cioè raga questa ha ancora l’agenda! Dice sta a fà una challege. Controlla qualcosa e poi si mette veloce le scarpe e esce. No-cioè, io ste cose mica le voglio vedere. Mi pare di perdere il mio tempo con ste storielle depresse out. No-cioè che senso aveva? Spiegatemelo.

OMOFIS_ Curriculum Vitae di una generazione

Non si è fatto altro che parlare di home office, durante questo primo Maggio di Quarantena. La definizione di smart working, molto simile a quella di flexitime, è quella di un lavoro con determinati orari fissi ed altri flessibili, o sempre flessibile. Cugino dello smart working è appunto l’home office, il telelavoro. Qui la definizione non si concentra sulla flessibilità ma sul luogo. E quanto mi piacerà parlare di luoghi durante questo Lockdown.

Ci stiamo tutti concentrando per lasciare un segno, una testimonianza di questo Zeitgeist perché è un pezzo di storia. Tutti si sentono autorizzati a pubblicare qualcosa, se non obbligati. Ebbene non c’è bisogno di una pandemia per trovare dello Zeitgeist. Io nei racconti della #queneauchallenge ci inciampo spesso, e in realtà basta leggere il mio curriculum vitae.  

Pare che l’equilibrio casa-lavoro sia l’indice con il quale misurare il tutto, e allora farò così ma partirò dall’inizio.

 Sono nata del 1993 e, qualche anno di scuola dopo, come molti secchioni della mia generazione ho iniziato a guadagnare con le ripetizioni. Inizialmente erano i figli degli amici di famiglia, poi la clientela si è allargata a tutti coloro che non capivano i polinomi. La mia capacità imprenditoriale non era il massimo, non c’erano ancora i social, ma anche se non avevo la self promotion potevo contare sul passaparola. “Ho saputo che lei dà ripetizioni di materie umanitarie anche” “Umanistiche, intende” “Tipo italiano?” “Sì”. L’omofis all’epoca era una vera pacchia, avevo sempre le caramelle sul tavolo e dopo il primo mese riuscii a comprarmi il mio primo portafoglio da sola. Ah, il lavoro, che soddisfazione!

Il lavoro da casa durò poco, e anche lo smartworking del poter dire “No, Marco, ho io la verifica domani, il ripasso a te lo posso fare Giovedì”. Lavoro indipendente ma ancora problemi ad ottenere il permesso di uscire la sera. Durante l’università un po’ continuai e un po’ cominciai ad accorgermi che sarei dovuta uscire di casa per chiamarlo davvero lavoro, e forse avere un contratto. In quegli anni i contratti comunque non andavano tanto, andava molto di più l’omofis e con i miei amici secchioni cercammo di fondare una comunità di ripetizioni. Non fece esattamente la fine della Apple. Mi ritrovai in estate a fare un’ora di bus e una passeggiata in salita per dare lezioni di italiano a dei bambini russi molto carini. Qualche altro marmocchio di nazionalità varia, e poi decisi che era il momento: “Devo fare la stagione”.

Da noi fare la stagione, ovvero lavorare come uno schiavo solitamente a nero e con orari improponibili tutta l’estate, era un po’ l’unica per fare dei soldi che si potessero chiamare tali. Avevo amici che erano abituati a fare la stagione e mi era sempre parsa quella cosa che mi avrebbe fatto svoltare. Probabilmente l’angolo. Trovai, dopo aver letteralmente consegnato a mano a tutti gli alberghi del lungomare il mio curriculum vitae, un posto in un ristorante abbastanza vicino casa. Non era omofis ma era molto flessibile nel senso che era a chiamata. Mi aveva trovato il posto una mia amica e mi aveva raccomandata. Col Cv che avevo, da intellettuale inutile, senza raccomandazioni non mi avrebbe mai presa nessuno. Un mio amico che faceva filosofia ci mise un sacco per essere accettato come aiuto pizzaiolo. La gente crede che i meme non esistono, e si sbaglia. C’era sempre stata una netta divisione dei ruoli, e se avevi passato i pomeriggi a fare i certamen di latino non è che potevi venirtene fuori con la storia di voler fare il cameriere, perché era un sogno irrealizzabile. Nel mio posto da raccomandata le cose si fecero molto dure subito, venivo bullizzata persino dall’altra cameriera. “Quando ho detto di pulire le posate con l’aceto non intendevo quello, ora lo devi rifare”. Ci rimasi fino a mezzanotte e mi immaginai tutti i punti in cui avrei potuto infilargli la forchetta e farle molto male. Quell’estate durò poco perché il troppo lavoro mi fece ammalare, e non in senso metaforico. Bastò mancare il giorno di Ferragosto per farmi licenziare senza neanche aver mai visto un contratto di assunzione. Mesi dopo, dopo numerose telefonate, mi toccò recarmi di persona per prendere quei 2,50 euro l’ora del periodo di prova, senza il conto delle ore. Forse avrei dovuto dargli ripetizioni di matematica.

La stagione finì prima del solito, e io mi ritrovai sola in un imbarazzante colloquio per poi ricominciare l’inverno senza un soldo guadagnato con il mio sudore. “Lei ha scritto che parla inglese, ora vediamo” . Ero appena tornata dall’Erasmus in Inghilterra. “Sono appena tornata dall’Erasmus in Inghilterra”. Il tizio mi chiese i nomi dei cibi e quando iniziai a parlare in inglese mi disse: “No, ma io non lo so così bene eh, ci serve gente che parli le lingue ai tavoli e basta”. Non che per questo mi avrebbero pagata di più, aumentava solo il livello di sfottimento.

Ritornai al caro, vecchio omofis e mi informai se potevo fare qualcosa nel sociale, aiutare gli altri. Finii in un centro per migranti e rifugiati ad insegnare Italiano. Non era omofis ma quasi. Avevo le chiavi, una motivazione etica e a volte pure il riscaldamento. Una delle esperienze migliori della mia vita, il volontariato si tramutò in lavoro vero. La cosa non poteva però durare a lungo, erano sempre incerti i finanziamenti, se come quando e perché. Abbandonai il luogo a malincuore.

Ed eccomi che rappresento il giovane italiano che scappa all’estero per trovare lavoro, senza neanche saperlo. I giornali si interessano alla mia storia, divento uno strumento da piedistallo o da pomodori marci, a seconda dei casi. “Abbasso tutti i traditori dell’Omofis! In Italia il lavoro c’è per chi ha voglia di lavorare!” “L’attuale governo fa schifo e per questo i giovani si trovano a fuggire dall’Omofis, questi angeli coraggiosi”. Porca pigna. Dall’altra parte ero l’immigrata che ruba il lavoro e allo stesso tempo chiede i sussidi statali. Ero lo Zeitgeist in persona e mi portavo l’Omofis nel cuore. Non so quanti tedeschi fremessero all’idea di fare le Au-Pair, fatto sta che avevo di che vivere senza chiedere ai miei genitori, che è quella cosa che uno per crescita personale dovrebbe essere in grado di poter fare in un paese civile (durante e) dopo gli studi. Almeno in un paese fondato sul lavoro, immagino.

Sembrano carini, sorridono con tutti i denti, mi pagano al mese, ho un contratto e posso vedere la Grande Città. Era tutto Omofis, nel senso che l’equilibrio casa-lavoro non era un equilibrio ma un’unica cosa. Lavoravo dove vivevo ed ero potenzialmente sempre in servizio. A quanto pare avere un contratto non voleva necessariamente dire avere anche molte tutele. Avevano stampato un contratto facsimile degli anni 60 scritto in quella lingua che non conoscevo e mi avevano manipolata sapientemente fino a far sparire il giorno libero. Potevo uscire solo quando volevano loro, organizzarsi la vita era abbastanza impossibile e a cena mangiavano tutte le sere sempre e solo pane e affettati. Al cosiddetto Abendbrot, e ai bambini, finii per affezionarmi ma dopo sei mesi riuscii per la prima volta a discutere in tedesco e mandarli a fanculo. Mentre mi sognavo ancora Maike che mi diceva che sotto al tavolo non avevo ancora pulito bene e che non potevo addormentarmi mentre la lavatrice andava, cercavo disperatamente un nuovo Omofis.

La seconda famiglia mi offrì un part time che copriva solo e soltanto l’affitto della casa sopra la loro. Ma era una famiglia carina, umana. Era un bell’Omofis fino a che non mi sono finiti i soldi e in Germania sono cazzi se non puoi pagarti l’assicurazione sanitaria. Volevo tornare all’Università, il mondo del lavoro forse non era fatto per me, ma prima mi serviva un livello più alto di tedesco. Nel frattempo i miei amici mi invidiavano la Grande Città, e credevano che me la godessi come un gufo. Qualcuno di loro era in procinto di iniziare la stagione, qualcuno aveva trovato miracolosamente qualcosa di nuovo e molti mi chiedevano se secondo loro sarebbero dovuti partire. Pochi mesi dopo qualcuno partì, e nell’Europa Pre Brexit l’Inghilterra andava più della Germania. Tutti quei cazzo di verbi in fondo non se li voleva sorbire nessuno neanche per l’Omofis più soffice del mondo.   

Il Job Center mi disse: “Non possiamo pagare tutti quelli dell’unione Europea!”. Per un attimo mi chiesi se la Germania non fosse in Europa. Feci loro causa e lì iniziò il mio Addio all’Omofis. Un po’ come Lucia ai monti, Casa non la vidi più. Avevo tre lavori, due lavori al giorno e il terzo per il weekend. Non ero mai ferma e a volte mi capitava di tornare a casa la sera esausta e accorgermi di mobili che non ricordavo di avere. La mattina dovevo alzami prestissimo per andare a fare supplenze negli asili, che significava soprattutto cambiare pannolini alla velocità della luce, il pomeriggio avevo i bambini più grandicelli di casa e il fine settimana lo passavo nel Museo del Silenzio, che è in effetti l’esatto contrario di un asilo. Esperienze forse molto belle se scisse, ma insieme mi portarono ad un terribile Burn Out corredato da Crisi Esistenziale dei 25 Anni ( Accertata da scientificissimi articoli del Vice) e non mi fecero neanche diventare benestante.

Con l’ammissione all’Università seppi di poter mandare, amorevolmente, a cacare almeno due lavori grazie alla borsa di studio. “Ce li avessi io tre lavori, ahaha, ma quanto lavoro c’è in Germania?”. Non so quanto ce ne fosse all’epoca ma c’erano inserzioni anche nella metro.

Abbandonai per prima l’Agenzia Interinale. Gli asili mi mancano a volte, ma non mi manca l’azienda che mi manda a lavorare di notte per poi dirmi che però la notte non è pagata perché potevo dormire. Peccato che stessi dormendo in un centro per bambini che sono stati allontanati dalle famiglie dai servizi sociali e ci fosse Moritz che andava a prendere i coltelli in cucina la notte e Hans che teneva la radio sempre accesa.

Riassaporare l’idea di avere del tempo libero di nuovo, di poter visitare nuove cose e tornare a scoprire Berlino, mi riempì di gioia così tanto che pensai di iniziare a vendicarmi. In maniera metaforica. Ora che sapevo il tedesco aprii la partita iva e iniziai a tradurre negli uffici pubblici agli italiani appena arrivati. Quando riuscivo a difendere qualcuno era un po’ come tirare una bomba carta al sistema, e anche se non ho mai tirato una bomba carta sento di poter agilmente usare la metafora grazie ai miei studi su Zerocalcare. Non ci guadagnavo un granchè, e avevo mantenuto il lavoro nel Weekend, ma era una soddisfazione incredibile quando i clienti ottenevano i sussidi. La cosa assurda del Job Center è che ti parla solo in tedesco e un mediatore vero (non quelli morali come me) non se lo può permettere nessuno di quelli che ha bisogno dei sussidi. “Brava figliola, trova i buchi nel mercato, crea l’offerta” diceva dentro di me nessuno.

Uno dei miei clienti un giorno mi fa “Ma perché non me lo insegni il tedesco?”. Ed eccoci lì, il cerchio della vita, l’Omofis. Università e Ripetizioni Private, stavolta però con partita Iva perché qui non è proibitivo essere legali. Ero tornata me, era come festeggiare il Primo Maggio tutti i giorni.

E questo primo Maggio 2020 io l’ho passato ripercorrendo la mia storia per ricordarmi che se adesso posso permettermi il formaggio vegano alle mandorle è solo merito mio. Perché chi dice che più lavori più guadagni, è un cospiratore neoliberale col distacco dalla realtà. L’importante nella vita è l’Omofis, lavorare sentendosi a casa.

Il mio Omofis per adesso la crisi non l’ha sentita, e mi ritengo molto fortunata. Ho il telelavoro con orari che decido io con un’azienda che ha sede comunque a 30 minuti da casa mia, non rischio il licenziamento se mi viene la cistite ma anzi mi pagano la malattia, e sono lì grazie alla mia laurea triennale. Una cosa così, qualche anno fa, non sarei neanche riuscita ad immaginarmela. Se dovessi perdere il lavoro, o dovessi andarmene, saprei reinventarmi. Non siamo di certo una generazione che avrà il lusso o l’onere di fare sempre lo stesso lavoro, stiamo tutti sperando che crolli il mercato immobiliare così da poterci permettere forse una casetta e quello che vogliamo, in fondo, è solo della dignità e un po’ di Omofis.

Fate delle leggi che lo rendano possibile. O aspettatevi le bombe carta.

E voi come descrivereste il vosto Omofis? Che esperienze avete avuto col mondo del lavoro in Italia e all’estero?

#queneauchallenge #esercizidistile #canzone #37

CANZONE

La fanciulla si sveglia

col sole di Berlino

ed una strana voglia

di ballare un casino.

Non studia, non lavora, non guarda la tv.

Vorrebbe sempre scrivere

ma a volte è troppo giù.

E mentre dice questo

si sente un po’ mancare,

veloce su un marsupio scivolare

che da uno sfondo nero dice mesto:

“Il vivere è migliore

Senza svastiche e aguzzini”

Ed ella si fa onore

Rialzandosi in calzini.

Il compagno d’altro lato

fallendo lo stampare,

corre via arrabbiato

mettendosi ad urlare.

La fanciulla si sveglia

col sole di Berlino

ed una strana voglia

di piangere un casino.

Lì sola la si vede

del nulla lamentarsi.

Al materno mi piace

è breve l’aggrapparsi.

La nostalgia non c’è,

la terapia è l’illusione

e si fa presto a dire

se questa è una canzone.

In fondo della metrica

si riesce a farne senza.

Ciò che non può mancare

è ora e sempre Resistenza.

Quando siete sul balcone, fateci caso

Oggi sul balcone splende il sole. Ho scoperto come riuscire a posizionarmi in modo da riuscire a fare home office anche con il sole sulla testa- è un po’ come lavorare all’aperto- ma non riesco a non distrarmi osservando i minuscoli ecosistemi che mi circondano, tutte quelle cose piccole, e le cose lontane, che vedo dall’alto, i personaggi del fuori. Il balcone è un posto ambiguo dove non avrei mai avuto così tanto tempo di stare se non ci fosse una pandemia là fuori. Al di là che mi piacciono i luoghi ambigui – come ogni cosa ambigua, perché l’ambiguità è talvolta l’unica cosa che si avvicina alla verità- il balcone è veramente un posto meraviglioso. Ieri due api mi sono cadute sulle ciabatte mentre leggevo e sono rimaste per terra così a lungo che ho avuto il tempo di riempire un tappo di bottiglia di acqua e zucchero come cocktail di benvenuto, e ricordarmi che dovrei comprare delle erbe da cucina per avere un terrazzo più accogliente per loro. Le vespe ci sono sempre state e credo ci sia un nido sopra la porta, e poi ci sono delle specie di cimici che si attaccano di continuo allo striscione che non riesce a star fermo per via del vento. Deve essere uno sport da insetti.

Sono passate due settimane da quando ho appeso fuori “Ich bleibe zu Hause” ovvero io resto a casa in tedesco. Nel giro di due settimane molte cose sono cambiate ed ora anche in Germania si è iniziato a prendere le cose sul serio. Qualche giorno fa sono anche uscite le multe per far rispettare determinati comportamenti, tipo la distanza di sicurezza. Io dal mio balcone la rispetto benissimo, e finalmente posso guardarmi allo specchio e vedere che no, non era una dissonanza cognitiva, era solo che ricevevo un bombardamento mediatico italiano e vivevo però in un altro paese, ma è tutto vero. Ho dei capelli sempre più orribili ma almeno vivo in maniera più coerente. E sul balcone mi riesce facile, la coerenza, lo scrivere, l’osservare e il farci caso. A cosa?

 Sono un essere coerente in un luogo ambiguo e faccio caso a più cose perché ho più tempo mentale, molto meno stress e anche qualche ora in più a disposizione perché non devo più fare la pendolare per 45 minuti andata e 45 minuti ritorno fra Università-Ufficio-Casa. I miei luoghi sono la casa, il balcone e il fuori, questo enorme abisso che comprende il Supermercato, il giardinetto di quelli di fronte, le biciclette a noleggio gratuito, la farmacia e la strada davanti casa.  Improvvisamente mi basta. Internet riesce a darmi quasi tutto quello di cui ho bisogno, abbiamo creato infiniti modi di reorganizzare il sociale nel digitale e ora stiamo facendo solo qualche passetto in avanti più velocemente. A me nessuno rivolgeva la parola per otto ore in ufficio, con l’home office almeno ho la compagnia delle api che ronzano. Non sarebbe mai stato lo stesso se la pandemia fosse scoppiata in pieno inverno, non avrei avuto questa esistenziale primavera sul balcone, ma io ora voglio parlare di qui ed ora.

Ho sempre vissuto in case col balcone. Per me è sempre stata una priorità, quando dovevo affittare casa, e preferisco andare a trovare gente se almeno ha una terrazza da offrire, o una vetrata ampia. Mi sono chiesta il perché. Non basta questo incredibile fetish per l’ambiguità, deve essere un’ambiguità speciale. Credo che sia per la politica del balcone. Il balcone è un borghese confine tra il pubblico e il privato. Mi posso sdraiare sulla sdraio e masturbarmi senza che nessuno mi veda, ma al contempo posso appendere uno striscione con le mie idee che tutti possono leggere, è una sintesi perfetta della democrazia.

La nostra vicina si è lamentata qualche giorno fa dicendo che è illegale appendere striscioni sul terrazzo. “Non vede che nessun altro lo fa? Secondo lei perché?”. In realtà non è affatto illegale. La legge dice solo che il proprietario del condominio potrebbe richiedere di rimuoverlo in caso danneggi la convivenza  fra coinquilini in qualche modo. Ovviamente “Io resto a casa” non poteva dare noia a nessuno, e quindi è ancora lì.  Ma invece “ Dove sono i 49 Milioni” e simili implicite frecciatine, a chi avevano dato noia? Gli striscioni contro Salvini avevano scatenato mesi fa oltre ad una meravigliosa performance collettiva, una vera e propria diatriba legale fra chi sosteneva la legge costituzionale e cose simpatiche come la libertà di espressione, e quelli che se ne erano molto originalmente venuti fuori con una norma di un decreto legge del 46 che punisce chi disturba una propaganda elettorale. Pensate a quanto casino si può fare con un balcone, dei pennarelli e un lenzuolo.

Quando pensiamo ai luoghi della politica si pensa spesso al Parlamento, ai vari gruppi di persone ben omologamente vestite che discutono rappresentandoci per via indiretta. E quelli sono indubbiamente luoghi politici. Poi abbiamo le strade e le piazze, dove possiamo creare giganteschi cortei per gioire o protestare arrabbiati pro o contra qualcosa. Questi sono i luoghi principali della politica, ormai quasi stereotipati nel loro essere politici, e forse anche anacronistici in certi contesti. In realtà le sale parto sono luoghi politici, le sale d’attesa nei consultori, le fabbriche sono luoghi politici, le cucine, le case, ma non voglio andare in questa direzione. Quello su cui voglio concentrarmi è il concetto di distanza. Se con la pandemia non possiamo stare uniti fisicamente, non possiamo più fare politica? Uniti ma vicini è davvero uno slogan possibile? Ma certamente. Ma anche dopo il Covid, se un preciso post-Covid ci sarà. La Butler nel capitolo “We the people” in “Notes Towards a Performative Theory of Assembly”, ricollegandosi alle analisi della Arendt sugli spazi politici, analizza l’utilizzo della tecnologia e si pone domande simili a: “Ma le persone che partecipano virtualmente alle proteste, seguendo le dirette ad esempio, sono parte della protesta?”. Una vera risposta non c’è, è uno spazio ambiguo come il balcone. Ma le idee vengono diffuse e lo spazio politico si amplia, muta, fluidifica. Ebbene, pensare che si rischi la dittatura perché si è costretti a stare a casa è come pensare che si morirà di fame perché è finita la pasta al supermercato.

Non tutti hanno un balcone e lo so bene, come molti non avevano anche prima altri strumenti democratici, come alcuni neanche avevano la visibilità politica fino a qualche anno fa, e i diritti civili se li sognavano la notte. Ma voi, voi che avete un balcone, non datelo per scontatelo e prendetevene cura. I balconi hanno la possibilità non solo di collegamento virtuale ma anche fisico, in alcuni edifici è proprio facile sputare nel balcone di sotto o porgere le mutande cadute con fare imbarazzato al vicino. O organizzare concerti patriottici, ok. Non sono una grandissima fan di bandiere e inni, ma apprezzo la teatralità del tutto. Spesso gli spazi artistici sono spazi politici, e il balcone è un’ambiguità che possiamo sfruttare al massimo in questo periodo. In Italia abbiamo una spiccata tendenza alla teatralità. Il Signore vestito da Zorro che viene bloccato dalla Polizia a Milano perché dal balcone lascia scivolare uno striscione con su scritto che sarebbe meglio rimanere umani, è e forse rimarrà il mio performance artist politico preferito ( Scusa Marina, scansati). Se c’è una cosa di cui il mio paese mi rende fiera è questa spontaneità ed esagerazione nei gesti. E i balconi sono palcoscenici gratuiti, bisogna scegliere solo se fare le Giuliette o i Mussolini. Il balcone è la perfetta fusione fra i cazzi tuoi e la cosa pubblica, è una rottura della quarta parete politica. A Pamplona la gente ha protestato contro la polizia facendo rumore con le pentole dai balconi, molte manifestazioni a Berlino si sono spostate in questi giorni sui balconi illuminati dalle prime giornate di primavera. Non voglio dire che la sinistra debba ripartire dai balconi, non voglio dire che non ci siano rischi, perché come per qualsiasi strumento e luogo i politico i rischi sono sempre dietro l’angolo. Ma fateci caso. Fermatevi ad ascoltare le api. Quando siete sul balcone, fateci caso.

Tutta la verità sul Coronavirus!!!!!

“Le nuove di tali scoperte volavan di bocca in bocca; e, come accade più che mai, quando gli animi son preoccupati, il sentire faceva l’effetto del vedere. Gli animi, sempre più amareggiati dalla presenza de’ mali, irritati dall’insistenza del pericolo, abbracciavano più volentieri quella credenza: chè la collera aspira a punire: […] le piace più d’attribuire i mali ad una perversità umana, contro cui possa far le sue vendette, che di riconoscerli da una causa, con la quale non ci sia altro da fare che rassegnarsi” (Alessandro Manzoni, “I Promessi Sposi”)

Se state leggendo perché davvero credevate che io potessi avere la verità in tasca, temo di dovervi deludere. Ma l’articolo magari merita lo stesso, andate avanti almeno un pochino. Se state leggendo perché vi siete rotti le scatole di vedere titoli come “Tutta la verità” siete nel posto giustissimo. Se siete qui perché siete mia madre, grazie mamma mi manchi.

In questi giorni, in una Berlino dove ancora si può andare a lavorare ma non si possono formare gruppi di più di due persone (escluso il nucleo familiare), e in un’Italia bloccata in quarantena da qualche settimana, è iniziata la primavera. È veramente difficile accettare che ci sia un sole così stupendo mentre la gente continua a morire negli ospedali, senza aver neanche il tempo di dire ciao. Ma è così.

Il mondo è cambiato di colpo nel giro di qualche settimana, e scenari post apocalittici si sono avvicinati in maniera inquietante all’immaginario collettivo. Un virus molto contagioso e per alcuni letale ha rallentato l’economia mondiale e ha richiesto che l’essere umano riorganizzasse la sua socialità. Una catastrofe per gli estroversi, na pacchia per quelli che le distanze le hanno sempre agognate. In questo periodo ci si sente contemporanei, è come uno schiaffo di realtà che prende tutti, indiscriminatamente. Tutto il mondo ha lo stesso problema, chi più e chi meno, ma nessuno si salva. E in questo continuum di umanità si vedono chiaramente certe cose a cui prima non si voleva fare molto caso. E no, non sto parlando dei morti di influenza stagionale dell’anno scorso.

Se dovessero un giorno chiedermi di cosa ebbi più paura, nell’ essere parte di un avvenimento storico di questo calibro, risponderei: la gente. Le reazioni delle persone mi hanno spaventata molto di più del virus. C’è stata un’escalation di panico irrazionale (perfino nella pragmatica Germania) e poi un conseguente abbandono totale della ricerca della verità. Non che queste cose non le vedessi prima, ma almeno riguardavano un gruppo circoscritto di personaggi, non il globo.

Il panico è una roba più contagiosa di qualsiasi corona virus, perché te lo chiappi anche a distanza. Basta che tu abbia i social, o degli amici coi social. Il panico iniziale era necessario, è servito anche a me perché prendessi la cosa più sul serio di quanto non la stessi prendendo inizialmente.

È bastato qualche giorno perché fosse chiaro il livello di emergenza e che non si trattasse di esagerazione mediatica. Quindi il panico può aiutare. Ma poi la gente ha iniziato a svaligiare i supermercati e sono finiti i fornellini da campeggio da Decathlon.

Si muore tutti, gli zombie, non si troverà cibo, mannaggia non ho neanche un pile della Quechua in casa e non sopravvivo neanche mezza giornata in una tenda. Dovevo comprarmi quel coltellino svizzero anni fa, quando ero ancora in tempo. Uccideranno prima gli immigrati, ci faranno ostracismo quando ci saranno le derrate alimentari e poi dovremo intraprendere un grande viaggio clandestino per ritornare in patria.

Dopo il si muore tutti, è scattato il Loro sanno qualcosa che io non so.

Perché proprio la carta igienica? Cosa si può costruire con la carta igienica che io non so? Possibile la gente cachi così tanto? E l’acqua? No, deve esserci una ragione oscura. Non si trovano più le mascherine ma non dicevano che non servivano? Non sarà mica che io ora rimango senza e la mettono obbligatoria per uscire e non posso più uscire. Oh, cazzo.

Dopo aver elaborato una serie di idee alternative alla carta igienica (che fra le altre cose se ci si pensa è inutile e inquina un sacco anche la sua produzione), mi sono accorta che non c’era alcuna verità nascosta. Che il cibo sarebbe sempre stato lì, a meno che qualche stronzo non avesse deciso di comprare il triplo di quello che compra di solito. Qui si dice fare Hamsterkauf perché Hamster vuol dire criceto e kaufen comprare e non vi devo dire io quello che fanno i criceti con le guance, immagino.

Superata la prima settimana, mi sono adattata psicologicamente e ho cominciato ad osservare in maniera più distaccata certi comportamenti.

Quello che è venuto dopo il panico è stata una pandemia di intolleranza, saccenza, moralismo e complottismo. Io so qualcosa che tu non sai è divenuto il nuovo mantra. Improvvisamente l’identity politics, che già ci aveva rotto abbastanza le pigne, si è scissa e per mitosi ha dato vita ad una serie infinita di partiti presi. Per i vegani, venivano contagiati solo quelle merde dei carnivori, perché avevano uno stile di vita malsano e crudele. E i fumatori? Eh, ma se uno ha dei vizi poi non si può aspettare che la società si fermi per lui. Per gli anti-vaccinisti, che qualcuno pensava ingenuamente di riuscire a convertire in questa epidemia, si ammalavano le persone giovani e sane solo se avevano fatto il vaccino influenzale. Per gli ambientalisti, era stato l’inquinamento sfrenato. Per il centro sinistra i tagli del centro destra, per il centro destra i tagli del centro sinistra. Per i sovranisti, era tutto questo melting- pot che aveva portato le malattie. Per gli omofobi, le unioni civili. Per quelli che volevano tenere le fabbriche aperte, quelli che vanno a fare jogging.

 Ognuno, con quella sua nuova piccola verità quasi religiosa offriva programmi di colpa e punizioni precisi. Improvvisamente la causa del corona virus era la stessa di tutti i mali. Che la gente dopo il panico cercasse sicurezze me lo aspettavo, ma non che accettasse quelle di tuttalaverita.com pubblicate sul gruppo di WhatsApp dei Rappresentanti dei genitori della 5B, o dei Tweet di Salvini.

O forse sì.

 E quindi ecco la mia versione di tutta la verità: il Coronavirus è un virus amorale. E prima lo accettiamo meglio è. Solo rispettando certi accorgimenti possiamo abbassare la curva di contagio, dobbiamo agire tutti insieme e poi sarà di nuovo tutto come prima.

O forse no.

La scienza ci fornirà determinate soluzioni e risposte ma bisogna aspettare e frenare le teorie fai-da-te (anche se, se uno cresce intere generazioni con film di spionaggio nella guerra fredda poi non si può aspettare altro). Accettare l’incertezza e allenarsi al non sapere, è un buonissimo esercizio contro l’ansia, oltre all’unica cosa buona da fare al momento.

Žižek dice che la situazione è troppo grave per farsi prendere dal panico e ha ragione, al contempo però non bisogna neanche fare il bagno nelle utopie più unicorniche. L’utopia non è la migliore cura contro la distopia, è il suo esatto contrario. Rassicurarsi dicendoci che “la terra sta guarendo” è controproducente perché non è vero. È stato bello immaginarsi i delfini nei canali di Venezia per qualche giorno, ma è stato inutile. Bisogna rimanere sull’attenti.

Sarebbe bello che questa crisi economica portasse ad un socialismo globale, io potessi permettermi una casa e tutti si accorgessero che la sanità sarebbe sempre dovuta rimanere pubblica e gratuita. Sarebbe bello. Ma i sistemi economici non si cambiano da soli, soprattutto non perché inizia a morire gente. Il capitalismo ha sempre ucciso. E un virus ai tempi del capitalismo uccide più coloro che non hanno certi privilegi di classe, non uccide i capitalisti. Anche perché quelli se ne lavano molto spesso le mani. C’è stata una speculazione incredibile su prodotti igienici e mascherine e vogliamo ancora raccontarci la buona novella che tutti diverremo empatici? Ma neanche il socialismo ci renderebbe tutti empatici. Uno degli errori più grandi della sinistra è secondo me proprio questa presunta superiorità morale, e ve lo dice una zecca buonista che continua a dare i soldi alle NGO nonostante non guadagni ancora abbastanza da dover pagare le tasse. Se vogliamo un cambiamento politico dobbiamo agire e non sperare nel miracolo.

 Se c’è una verità che mi ha insegnato il coronavirus è che sono le emozioni a muovere tutto. La politica, l’economia, la morale e i lanciafiamme. Se la paura è il terreno fertile per le dittature, la prima cosa da fare sarebbe imparare a controllare le proprie emozioni, non paragonare la quarantena ad un lager. Se c’è una verità che mi ha insegnato il Coronavirus è che va bene anche quando una grande verità non c’è e che è molto umano accettarlo, come si accetta la primavera.

#queneauchallenge #esercizidistile #horror #34

HORROR

Proprio quando sembra una mattina come le altre, c’è qualcosa che non va. La ragazza si alzò con una strana sensazione, come se dentro di lei qualcosa volesse uscire, emergere e vendicarsi. Le sue braccia tiravano verso l’alto e qualcuno dal fuori avrebbe potuto dire che stava ballando. Era un agosto grigio e afoso a Berlino. La testa le girava grave e non aveva completo controllo del suo corpo. Era intrappolata in una danza continua, monotona e ripetitiva. Cercò di raggiungere il salotto ed ebbe un déjà-vu. Ma non si era già svegliata ed era già andata nel salotto? Dove era la musica? Sentiva un pianoforte in lontananza, ma il suo ragazzo non era al piano. Sussurri muovevano le sue gambe. Cosa aveva ascoltato per l’ultima volta? Quella sensazione le stava comunicando che quella sarebbe davvero stata l’ultima volta, un’ultima infinita volta. Voleva prendere il cellulare, mettere i CCCP o qualsiasi cosa la potesse calmare. Voleva che qualcuno la salvasse. Il suo ragazzo era nell’altra stanza, stava stampando qualcosa sbuffando, mentre lei era in preda a questa macabra danza. Cercò di urlare ma scoprì di non poter produrre suoni. Era come guardare il suo corpo muoversi tirato da invisibili fili. Il cuore da burattino palpitava sempre di più, una sensazione di morte si stava impadronendo di lei, era troppo stanca per continuare ma il suo corpo non la finiva. Il ragazzo nel frattempo se ne era andato di fretta. Si sentì cadere e si ritrovò a  terra con la faccia su un marsupio. “Si vive meglio senza i nazisti” riusciva a leggere, scritto in rosa. Era pieno di vecchi volantini e polvere. A terra, i suoi occhi si fecero brucenti. Non poteva essere tutto vero. Aveva riacquisito il controllo sulle mani, cercò di coprirsi gli occhi e una sensazione di nausea la investì. Tornò a sentire le gambe ma scoprì di non avere abbastanza energie per rialzarsi. Era tutta un tremito. Riaprì gli occhi e osservò i suoi palmi: erano coperti di sangue. L’orologio del salotto indicava ancora le sette e mezza, la lancetta dei secondi era irremovibile. Iniziò a strisciare a pugni chiusi verso la porta del corridoio ma si fermò non appena sentì qualcun altro strisciare sopra la sua testa. “Solo un disturbo paranoico, solo una proiezione, io sono al sicuro, io sono abbastanza, io sono forte e resistente”. La botola della soffitta si aprì di colpo. “Io sono al sicuro” si sarebbe continuata a ripetere la ragazza se non fosse stata investita da un rumore assordante di porte che sbattono. Ma le porte erano tutte chiuse. Tentò di alzarsi invano. “Solo una proiezione”. Il suono del carillon con la musica di Pinocchio, lo aveva ancora? I suoi pensieri si fecero un tremolo di violino. Di nuovo quella voglia di danzare. Si sentì rialzarsi di colpo. Le mani ancora piene di sangue avevano gocciolato per tutto il corridoio. Doveva vomitare. C’era qualcosa dentro di lei, dentro casa sua. Qualcuno stava di nuovo suonando il pianoforte. Un tonfo, e poi una mano di donna si fece largo dalla botola. “Forse sto solo scrivendo tutto”. Il panico la fece correre verso il salotto, voleva chiamare sua madre ma…. le sue caviglie vennero bloccate da qualcosa di viscido e appiccicoso. Addio.

Qualche ora dopo il cellulare squillò ripetutamente, la sua terapista era preoccupata perché non si era presentata all’appuntamento. Nello stesso istante il suo cadavere, completamente intatto, sorrideva beffardo di quel sorriso di cui si muore, da soli, in casa propria. Nessuna traccia di sangue o colluttazione e qualcuno avrebbe persino potuto dire che le mani della salma profumavano ancora di vaniglia e miele. L’unica cosa strana era un piccolo ragno che stava uscendo dalla narice destra.

#queneauchallenge #esercizidistile #presente #32

PRESENTE

Si sveglia, si stiracchia, guarda davanti a sé ed inizia a ballare. Danza, danza, danza, la ragazza danza nella realtà fino al salotto. È mattino, è Agosto, è a Berlino. La ragazza si sente presente, fra gli oggetti della casa. Grounding. Tocca la parete ruvida del muro, la maniglia fredda della porta, il leggero tessuto del pigiama e, sotto, il suo corpo caldo. Delinea le curve che trova e poi si spettina i capelli, li porta verso l’alto e li fa scorrere fra le dita. Grounding. Qui e ora. Prende il cellulare e si mette ad ascoltare i CCCP. L’odore è di chiuso e di resina. I suoni del traffico sono molto lontani, solo un ticchettio dalla stanza adiacente. Balla, balla, balla, nel mezzo del divano, morbido fino ai ¾, del severo tavolo in legno, del mare di volantini e poi, nell’estasi, in quel completo esserci inciampa. Un marsupio nero con una scritta “Si vive meglio senza i nazisti”. È lo Zeitgeist che si diverte a fare gli sgambetti. “Maledizione!” urla l’altro che nell’altra stanza vuole stampare dei fogli. La stampante non funziona. Volano ancora più fogli e poi sbatte la porta. Quando l’altro se ne va di fretta, il presente la finisce di ballare e inizia a soffocare. La soffice moquette non è più un nido e l’abbandono è l’unica opzione. La solitudine da marsupio non si cura della fievole luce che viene dalla finestra, perché è tutta dentro la testa. Lontana dal materiale, la ragazza che non balla più, si avvicina al pc e inizia a scrivere. Non è più presente, ma si annulla in un corpo leggero dal collo rigido, si sente come in macchina nei lunghi viaggi. “Ci dobbiamo fermare?” le chiede la madre, dopo la seconda curva. La stessa madre che le mette i mi piace agli articoli da lontano. La ragazza sparisce lentamente, nei suoi pensieri e poi su un bus. Del presente rimane solo un pijama, gli ultimi oggetti sulla scrivania, gli appunti sul calendario, la tazza mezza piena, i documenti, la carta del cioccolato. La più grande menzogna è che il dasein si può gestire come una semplice allergia alla definizione- la ragazza-l’immigrata-l’italiana-la donna-la fidanzata-la studentessa- la figlia- la scrittrice-la bambina- quando in realtà un soggetto è continuamente costretto a rendersi estero per sopravvivere. E chi decide la gerarchia di questi spostamenti aleatori?  Come i volantini che si spostano senza che ci sia vento nel salotto. L’altro? “Come si sente, adesso?” Presente non vuol dire contemporaneo.

TERRENO FERTILE ovvero riflessioni del 27 Gennaio 2020 di un’immigrata italiana a Berlino

 Cosa vuol dire per te celebrare il 27 Gennaio a Berlino? Il Giorno della Memoria qui è molto più blando che in Italia. Questo non avviene perché i tedeschi si siano dimenticati l’Olocausto, ma per l’esatto contrario: il passato è compagno del presente e per questa ragione scegliere un giorno arbitrario è quasi futile. C’è, ma quello che c’è molto di più e si sente ancora, è il senso di colpa di intere generazioni, un senso di colpa storico che permea anche da certe posizioni della sinistra in politica, che sgocciola dai monumenti in centro, che si solidifica in un politically correct in ambiente accademico che a volte sfiora il ridicolo. I tedeschi non hanno bisogno del Giorno della memoria, se lo ricordano ugualmente senza dettagli atroci su Facebook il 27 Gennaio. Io vedo una costante paura del ripetersi, un collettivo ricordarsi, e questo, per quanto abbia indubbiamente distrutto l’identità nazional-psicologica di coloro che sono nati o cresciuti dopo, quando i crimini cominciavano a venire puniti dalla legge, questo costante malessere storico è un bene.

 Non mentiamoci: se dici Italia pensi Pizza, se dici Germania pensi Hitler. I primi mesi che vivevo a Berlino mi spaventavo tutte le volte che mi trovavo sulla metro, imbottigliata nel pendolarismo mattutino, e un altoparlante urlava qualcosa in un tedesco che ancora non capivo. “Stare attenti alle porte” si traduceva in “Ti abbiamo trovata” dentro la mia testa. Su questo ci sarebbe da dire che i nazisti anche nei film doppiati li lasciano quasi sempre urlare in tedesco coi sottotitoli, e quindi persino la lingua tedesca finiamo per associarla all’Olocausto, noi Italiani. Comunque, questo continuo essere ricordati è la cosa che, stranamente, mi fa sentire più al sicuro.

Per quanto l’AfD (Alternative für Deutschland, il partito populista di estrema destra, paragonabile alla Lega) stia ottenendo sempre più voti nella ex DDR e persino nella metropolitana Berlino, e questo sia allarmante, ho anche sentito dire il sindaco di Berlino che in realtà non dovrebbero neanche avere il diritto di sedersi in parlamento e ho letto di numerosi casi di boicottaggio durante le loro più grandi riunioni di partito. Una loro manifestazione è stata bloccata da un corteo queer con musica Techno nel 2019, e tantissimi bar avevano l’adesivo con scritto “No party for Nazi” o qualcosa di simile. Ho visto gruppi di neonazisti sfoggiare in grande pompa un cartellone con su scritto “Noi non ci pentiamo di nulla”, e mostrare il culo, in senso letterale, e mi sono anche trovata un simpatico nazista di quartiere sul pianerottolo a distribuire volantini, ma di manifestazioni per i diritti delle donne, i diritti umani, i diritti civili della comunità Lgbtq+ ( Non dimentichiamoci che nei campi ci finirono ebrei, comunisti, asociali, disabili e omosessuali)… ce ne sono state molte di più, senza bisogno di ricorrere alle statistiche. Potrei azzardarmi a dire che, per quanto il governo tedesco abbia notevoli problemi con il terrorismo di matrice nazista (Omicidio Lübcke, politico del partito di Angela Merkel), certe idee non vengono viste come “eh ma la libertà di espressione”, il problema c’è ed è grosso ma l’intolleranza non coinvolge la maggioranza della popolazione.

 Noi abbiamo invece non solo lasciato sfilare tranquillamente i gruppi neofascisti, ma li abbiamo addirittura protetti con la Polizia. Ok, alla fine abbiamo le Sardine- movimento criticabile ma tutto sommato positivo- ma prima che arrivassero ci sono stati scandali come negazionisti nei consigli comunali (Ma la legge Scelba, scusate?), abbiamo avuto fra i candidati alle europee cognomi che non dovrebbero essere ammessi, sono state offese vittime dell’Olocausto definendole “divisive”, da Traini in poi c’è stata un’escalation di atti razzisti e abbiamo organizzato sul nostro territorio manifestazioni di livello mondiale dove le conquiste base del femminismo venivano messe di nuovo in discussione. Ho visto muoversi l’Anpi sia in Italia che a Berlino, esatto, l’Anpi ha indetto una manifestazione a Görlitzer Park nel 2019 e questo mi ha dato molto da pensare.

L’Italia è ormai parte di quei paesi dell’Ue che sono dichiaratamente xenofobi insieme all’Ungheria, la Polonia e l’Austria (anche se secondo uno studio del 2018 il paese più razzista della UE sarebbe la Finlandia). Il Belpaese sta attuando una serie di leggi anti- integrazione (che comunque sarebbe stata assimilazione più che scambio culturale). Qui il termine è molto importante, perché non si tratta di una politica anti- immigrazione vera, che in una qualche malata logica di estrema destra funziona, ma di un modo di creare solo caos. Il fatto che lo abbiano chiamato Decreto Sicurezza sembra una barzelletta: fa perdere il lavoro agli italiani che si occupano di integrazione (Vedi i tagli ai progetti Sprar) e mette sulla strada dei poveracci senza la minima prospettiva, o li concentra in grossi campi abitativi, prevalentemente gestiti da privati, dove c’è già stata la denuncia per violazione dei diritti umani. Una politica che preferisce lasciar morire la gente in mare e demonizzare le ONG e gli attivisti piuttosto che occuparsi di fare riforme che migliorino il welfare generale, l’integrazione, e l’educazione; una politica che non si rende conto che il problema non sono quelli che arrivano ma quelli che se ne vanno. Abbiamo cambiato governo ma il Decreto Sicurezza è ancora lì.

È inutile fare i post con gli emigrati italiani in America nel primo dopoguerra, siamo al momento attuale un popolo che emigra. Per adesso le mete preferite sono l’Inghilterra e la Germania, ma a breve grazie alla Brexit, la Germania verrà letteralmente invasa. Pizzerie ovunque, I wurstel spariranno e tutti cominceranno a parlare a gesti, perché il tedesco è una lingua troppo difficile e l’inglese sta per diventare extraeuropeo. Scordatevi la fuga dei cervelli (solamente il 30 per cento degli emigranti possiede una laurea) e immaginatevi più l’assalto al Job Center alle otto di mattina quando ancora fa buio, stile scena di film Zombie di Serie B.

La Germania non è un posto perfetto, lungi dal fare un elogio gratuito, ci sono tante politiche ingiuste anche per quanto riguarda l’immigrazione: il trattamento ”speciale” riservato ai rifugiati siriani, i rimpatri forzati e il fatto che per integrazione si intenda più introduzione forzata nel mercato del lavoro. È un luogo dove il capitalismo è all’estremo tanto da essere sull’orlo dell’autodistruzione, tanto che, ad esempio, a Berlino arrivano proposte di esproprio di grandi compagnie immobiliari per reumanizzare le politiche abitative. Ma le leggi che regolano il sociale ti permettono di avere un’esistenza molto più dignitosa di quella che potresti avere in Italia, e non si basano quasi mai sulla cittadinanza. Ad esempio, il cosiddetto “Harz 4” o “ALGII” (Secondo sussidio di disoccupazione), che corrisponde in maniera un po’ goffa al nostrano “Reddito di Cittadinanza” può richiederlo quasi chiunque abbia lavorato in Germania per pochi mesi. La maggior parte degli italiani lo richiede. Arrivano, neanche sanno dire una parola e pretendono i soldi, e un corso di integrazione gratuito, questi maledetti immigrati. È bello vedere come i soldi investiti nel sociale creino quel tipo di società in cui andare all’università e avere un figlio a 26 anni non diventa impossibile (perché è così che si fa a fare riprodurre la gente, non negando il diritto all’aborto), il lavoro in nero è rarissimo (almeno che tu non lavori in un ristorante italiano), trovare un’occupazione per cui si è studiato qualcosa è un obiettivo di tutti, come società, e i centri per l’impiego (quelli slegati dai vari benefit) funzionano. Un’ altra cosa molto interessante è che oltre al senso di colpa collettivo, in Germania c’è anche un rispetto collettivo dell’intelligenza, o perlomeno del sapere. Con la Cultura si mangia molto di più ( il 14 per cento dei soldi pubblici vengono investiti nella Cultura, contro lo 0,3 per cento in Italia), le Lauree Umanistiche non sono una maledizione eterna, il pensiero critico è costantemente incoraggiato (hanno il 10 per cento in meno di analfabeti funzionali) e se studi, se hai lo status di persona che si sta occupando di conoscenza, riesci a sgattaiolare per un po’ fuori dal sistema liberista con una serie di sconti, agevolazioni e bonus: i trasporti costano la metà e le tasse universitarie sono quasi inesistenti. Il sistema sanitario è costosissimo ma fa sì che quasi tutto sia coperto, anche tutte le visite specialistiche; le medicine vengono a costare molto meno e ci sono comunque casi in cui è lo Stato a pagare l’assicurazione sanitaria. Diciamo che trovarsi a Berlino il 27 Gennaio è economicamente ed eticamente conveniente.

 Ma cosa c’entra col giorno della memoria?

 Sarebbe questo di cui dovremmo iniziare a parlare in Italia, non tornare a delle dicotomie medievali per costruire delle becere identità populiste. Dove è la politica vera? In Italia non è sparita solo la sinistra, è sparito il dibattito utile. Stiamo lì a scannarci sulla transitività dei verbi e non ci accorgiamo della intransitività del governo che non collabora molto al benessere del cittadino. Mettere Lino Banfi all’Unesco è stato uno statement coerente. Il Berlusconianesimo sotto il quale la mia generazione è cresciuta era la religione della figura -di-merda, abbiamo de-moralizzato ed emotivizzato la politica e queste sono le (non ancora estreme) conseguenze. La laurea non serve a nulla, basta la vita, i neri sono brutti, le donne devono stare in cucina o nude, e i diritti civili se li meritano solo quelli che trombano per riprodursi, e lo dico perché sono cristiano eh.

 La cosa buffa è che nell’arte contemporanea non si fa che parlare di post-umanesimo, di sistemi filosofici che permettano una migliore ecologia delle cose, che si arrivi a rispettare un sasso o una riserva naturale quanto una vita umana, ma abbiamo la metà dei governi mondiali che non riesce nemmeno ad allacciarsi le stringhe delle attuali promesse ontologiche. Io vedo un disumanesimo, e specialmente nel mio paese di origine.      

Ma quindi non ti senti più italiano? Non posso citare Gaber tutte le volte, ma non passa giorno in cui non mi venga ricordato che sono italiana, non è una cosa che puoi sentire o meno, è lo stato delle cose. Ma il cibo non ti manca? Sarei disposta a nutrirmi fino alla morte di wurstel, cetrioli e cappuccini vegani pur di avere l’università gratis

 C’è quel detto che dice “Ogni persona sta combattendo una battaglia difficile, sii gentile, sempre”, beh io penso che a seconda della battaglia, oltre ad essere gentili sia necessario prendere una posizione. Penso troppa gente sia stata solo gentile con Adolf Hitler e la sua battaglia. La nostra battaglia, di noi ultime generazioni, è il riscaldamento globale, l’uguaglianza, la pace e il superamento delle identità nazionaliste di stampo romantico, tutto il resto è una cagata pazzesca. La nostra battaglia, di italiani, è di non ricadere in trappole fasciste e di non sottovalutare la nostra responsabilità storica sfoderando i migliori evergreen whataboutism su Foibe e via dicendo il 27 Gennaio, o qualsiasi altro giorno dell’anno, ma guardare fuori dalla finestra (direzione Libia), farlo davvero con autocritica, sia che si sia in patria che ci si trovi all’estero, perché la fortuna del nazismo e del fascismo non è stata di essere ideologie nuove, scientificamente provate e con basi solide ma solo di aver trovato terreno fertile. Questo è quello che nel giorno della memoria dovremmo tenere a mente: non creare terreno fertile. E il terreno fertile è facile crearlo, basta un po’ di crisi economica, intolleranza e qualche passo indietro.

#queneauchallenge #esercizidistile #passatoprossimo #31

PASSATO PROSSIMO

Si è alzata sul presto, si è stiracchiata, ha fatto gli esercizi per la schiena e ha iniziato a danzare. È passato poco tempo ed io sono stata lì a guardarla, quella me che ha fatto finta di non vedermi anche se è stata scritta da me. Ha acceso il cellulare ed ha ascoltato i CCCP. È passato tanto tempo dall’ultima volta. Poi mi ha inghiottita con il suo entusiasmo e sono divenuta la sua felicità. Il salotto di certo non è stato messo in ordine da nessuno, il pavimento è stato ricoperto di volantini. E un marsupio. Chi te l’ha regalato, personaggio felice?  Il ragazzo nell’altra stanza ha bestemmiato, si è arrabbiato con la stampante e lei, il personaggio felice, è caduto per terra perché ha inciampato sul marsupio. Gli è stato regalato ad un festival di organizzazioni contro l’estrema destra, sopra è stato scritto “Si vive meglio senza nazisti”. Ha riso, ha riso un sacco. L’altro personaggio è però poi dovuto andare via e lei non ha più riso. Si è incupita, ha guardato la finestra di un Agosto Berlinese e ha pensato a tante cose contemporaneamente, ma al passato prossimo. Quel passato che non è andato via e si è incarcerato nelle nostalgie, quel passato che in realtà è stato un presente, un futuro e si è continuamente mischiato in un essere andata ed un essere tornata. Quel passato così prossimo che non ha mai svuotato la valigia. Ha contato i mi piace di sua madre, i giorni che sono spariti veloci e quelli che ha meravigliosamente costruito. Si è sentita spersa, io mi sono allontanata e ho continuato a guardarla da una comoda terza persona. Si è messa a scrivere, almeno così mi è parso, ed ha assaporato un’inconscia prossima estate. L’ho lasciata del tutto quando è salita sull’autobus. Mi è quasi venuto da piangere- l’ho vista cresciuta e decisamente a me più prossima.

#queneauchallenge #esercizidistile #insistenza #29

INSISTENZA

Una mattina di Agosto a Berlino una ragazza immigrata si sveglia nel suo letto illuminato dalle prime luci di un’estate della capitale tedesca. In quella che per alcuni è la capitale europea, un’immigrata si sveglia felice, presa da un volteggiamento quasi barocco. Questa giovane che ha lasciato il suo paese non lascia il tempo che trova bensì inizia a danzare per la casa, capitando nel salotto, dalla cui finestra si percepisce che è proprio una bella giornata estiva nella città senza più muro. Un sinonimo di quell’individuo che balla senza tregua nel salotto illuminato dalle prime luci della capitale tedesca, inciampa su un marsupio. Il marsupio fa parte dell’habitat del salotto illuminato, assieme a moltitudini di volantini contro il Decreto Sicurezza e Simili. Lei, la ragazza emigrata, ci inciampa. “La vita è meglio senza i Nazisti, la vita” è scritto su quel marsupio dove è inciampata la ragazza che si è svegliata in una mattinata di Agosto caldo e berlinese. Mentre danzava sulle barocche giravolte dei CCCP, quella fanciulla è inciampata e ha sentito una botta di Zeitgeist che ha sfiaccato il suo felicitarsi dell’esistenza mattutina di un Agosto berlinese. Proprio nello stesso Agosto, nella stessa casa, nello stesso momento, un immigrato si arrabbia con una stampante e di fretta se ne esce da una casa berlinese illuminata da un Agosto d’inciampo. Di quel ragazzo italiano che si è trasferito all’estero per fare musica, la ragazza che si è trasferita all’estero per fare teatro, sente la mancanza. Quella mancanza a Berlino, capitale europea, illuminata dal sole delle prime luci di un agosto d’inciampo, ha poco senso. La ragazza immigrata che si era svegliata nel suo letto e che non lascia il tempo che trova, sente forse quella paura d’inciampo dovuta all’insistere, davanti a finestre illuminate, un voler scrivere, un voler diventare, un voler essere, un blog. La madre della ragazza che non lascia il tempo che trova è spesso nei suoi pensieri e nelle sue mancanze e nelle sue notifiche di apprezzamento di facebook ai post lunghi che non legge nessuno. Nessuno legge i post lunghi di quella ragazza che si sveglia danzando in un agosto di capitale europea d’inciampo e lei finisce per dover fare una terapia illuminata dalle prime luci di una rivolta politica che parte dal letto e finisce in un marsupio, una terapia che disdegna le stampanti, una terapia d’urto in un salotto di Berlino, una terapia di stereotipi ed eccezioni, di pregiudizi ed insistenti metafore contemporanee. “La vita è più bella senza i nazisti, più bella”.