Tutta la verità sul Coronavirus!!!!!

“Le nuove di tali scoperte volavan di bocca in bocca; e, come accade più che mai, quando gli animi son preoccupati, il sentire faceva l’effetto del vedere. Gli animi, sempre più amareggiati dalla presenza de’ mali, irritati dall’insistenza del pericolo, abbracciavano più volentieri quella credenza: chè la collera aspira a punire: […] le piace più d’attribuire i mali ad una perversità umana, contro cui possa far le sue vendette, che di riconoscerli da una causa, con la quale non ci sia altro da fare che rassegnarsi” (Alessandro Manzoni, “I Promessi Sposi”)

Se state leggendo perché davvero credevate che io potessi avere la verità in tasca, temo di dovervi deludere. Ma l’articolo magari merita lo stesso, andate avanti almeno un pochino. Se state leggendo perché vi siete rotti le scatole di vedere titoli come “Tutta la verità” siete nel posto giustissimo. Se siete qui perché siete mia madre, grazie mamma mi manchi.

In questi giorni, in una Berlino dove ancora si può andare a lavorare ma non si possono formare gruppi di più di due persone (escluso il nucleo familiare), e in un’Italia bloccata in quarantena da qualche settimana, è iniziata la primavera. È veramente difficile accettare che ci sia un sole così stupendo mentre la gente continua a morire negli ospedali, senza aver neanche il tempo di dire ciao. Ma è così.

Il mondo è cambiato di colpo nel giro di qualche settimana, e scenari post apocalittici si sono avvicinati in maniera inquietante all’immaginario collettivo. Un virus molto contagioso e per alcuni letale ha rallentato l’economia mondiale e ha richiesto che l’essere umano riorganizzasse la sua socialità. Una catastrofe per gli estroversi, na pacchia per quelli che le distanze le hanno sempre agognate. In questo periodo ci si sente contemporanei, è come uno schiaffo di realtà che prende tutti, indiscriminatamente. Tutto il mondo ha lo stesso problema, chi più e chi meno, ma nessuno si salva. E in questo continuum di umanità si vedono chiaramente certe cose a cui prima non si voleva fare molto caso. E no, non sto parlando dei morti di influenza stagionale dell’anno scorso.

Se dovessero un giorno chiedermi di cosa ebbi più paura, nell’ essere parte di un avvenimento storico di questo calibro, risponderei: la gente. Le reazioni delle persone mi hanno spaventata molto di più del virus. C’è stata un’escalation di panico irrazionale (perfino nella pragmatica Germania) e poi un conseguente abbandono totale della ricerca della verità. Non che queste cose non le vedessi prima, ma almeno riguardavano un gruppo circoscritto di personaggi, non il globo.

Il panico è una roba più contagiosa di qualsiasi corona virus, perché te lo chiappi anche a distanza. Basta che tu abbia i social, o degli amici coi social. Il panico iniziale era necessario, è servito anche a me perché prendessi la cosa più sul serio di quanto non la stessi prendendo inizialmente.

È bastato qualche giorno perché fosse chiaro il livello di emergenza e che non si trattasse di esagerazione mediatica. Quindi il panico può aiutare. Ma poi la gente ha iniziato a svaligiare i supermercati e sono finiti i fornellini da campeggio da Decathlon.

Si muore tutti, gli zombie, non si troverà cibo, mannaggia non ho neanche un pile della Quechua in casa e non sopravvivo neanche mezza giornata in una tenda. Dovevo comprarmi quel coltellino svizzero anni fa, quando ero ancora in tempo. Uccideranno prima gli immigrati, ci faranno ostracismo quando ci saranno le derrate alimentari e poi dovremo intraprendere un grande viaggio clandestino per ritornare in patria.

Dopo il si muore tutti, è scattato il Loro sanno qualcosa che io non so.

Perché proprio la carta igienica? Cosa si può costruire con la carta igienica che io non so? Possibile la gente cachi così tanto? E l’acqua? No, deve esserci una ragione oscura. Non si trovano più le mascherine ma non dicevano che non servivano? Non sarà mica che io ora rimango senza e la mettono obbligatoria per uscire e non posso più uscire. Oh, cazzo.

Dopo aver elaborato una serie di idee alternative alla carta igienica (che fra le altre cose se ci si pensa è inutile e inquina un sacco anche la sua produzione), mi sono accorta che non c’era alcuna verità nascosta. Che il cibo sarebbe sempre stato lì, a meno che qualche stronzo non avesse deciso di comprare il triplo di quello che compra di solito. Qui si dice fare Hamsterkauf perché Hamster vuol dire criceto e kaufen comprare e non vi devo dire io quello che fanno i criceti con le guance, immagino.

Superata la prima settimana, mi sono adattata psicologicamente e ho cominciato ad osservare in maniera più distaccata certi comportamenti.

Quello che è venuto dopo il panico è stata una pandemia di intolleranza, saccenza, moralismo e complottismo. Io so qualcosa che tu non sai è divenuto il nuovo mantra. Improvvisamente l’identity politics, che già ci aveva rotto abbastanza le pigne, si è scissa e per mitosi ha dato vita ad una serie infinita di partiti presi. Per i vegani, venivano contagiati solo quelle merde dei carnivori, perché avevano uno stile di vita malsano e crudele. E i fumatori? Eh, ma se uno ha dei vizi poi non si può aspettare che la società si fermi per lui. Per gli anti-vaccinisti, che qualcuno pensava ingenuamente di riuscire a convertire in questa epidemia, si ammalavano le persone giovani e sane solo se avevano fatto il vaccino influenzale. Per gli ambientalisti, era stato l’inquinamento sfrenato. Per il centro sinistra i tagli del centro destra, per il centro destra i tagli del centro sinistra. Per i sovranisti, era tutto questo melting- pot che aveva portato le malattie. Per gli omofobi, le unioni civili. Per quelli che volevano tenere le fabbriche aperte, quelli che vanno a fare jogging.

 Ognuno, con quella sua nuova piccola verità quasi religiosa offriva programmi di colpa e punizioni precisi. Improvvisamente la causa del corona virus era la stessa di tutti i mali. Che la gente dopo il panico cercasse sicurezze me lo aspettavo, ma non che accettasse quelle di tuttalaverita.com pubblicate sul gruppo di WhatsApp dei Rappresentanti dei genitori della 5B, o dei Tweet di Salvini.

O forse sì.

 E quindi ecco la mia versione di tutta la verità: il Coronavirus è un virus amorale. E prima lo accettiamo meglio è. Solo rispettando certi accorgimenti possiamo abbassare la curva di contagio, dobbiamo agire tutti insieme e poi sarà di nuovo tutto come prima.

O forse no.

La scienza ci fornirà determinate soluzioni e risposte ma bisogna aspettare e frenare le teorie fai-da-te (anche se, se uno cresce intere generazioni con film di spionaggio nella guerra fredda poi non si può aspettare altro). Accettare l’incertezza e allenarsi al non sapere, è un buonissimo esercizio contro l’ansia, oltre all’unica cosa buona da fare al momento.

Žižek dice che la situazione è troppo grave per farsi prendere dal panico e ha ragione, al contempo però non bisogna neanche fare il bagno nelle utopie più unicorniche. L’utopia non è la migliore cura contro la distopia, è il suo esatto contrario. Rassicurarsi dicendoci che “la terra sta guarendo” è controproducente perché non è vero. È stato bello immaginarsi i delfini nei canali di Venezia per qualche giorno, ma è stato inutile. Bisogna rimanere sull’attenti.

Sarebbe bello che questa crisi economica portasse ad un socialismo globale, io potessi permettermi una casa e tutti si accorgessero che la sanità sarebbe sempre dovuta rimanere pubblica e gratuita. Sarebbe bello. Ma i sistemi economici non si cambiano da soli, soprattutto non perché inizia a morire gente. Il capitalismo ha sempre ucciso. E un virus ai tempi del capitalismo uccide più coloro che non hanno certi privilegi di classe, non uccide i capitalisti. Anche perché quelli se ne lavano molto spesso le mani. C’è stata una speculazione incredibile su prodotti igienici e mascherine e vogliamo ancora raccontarci la buona novella che tutti diverremo empatici? Ma neanche il socialismo ci renderebbe tutti empatici. Uno degli errori più grandi della sinistra è secondo me proprio questa presunta superiorità morale, e ve lo dice una zecca buonista che continua a dare i soldi alle NGO nonostante non guadagni ancora abbastanza da dover pagare le tasse. Se vogliamo un cambiamento politico dobbiamo agire e non sperare nel miracolo.

 Se c’è una verità che mi ha insegnato il coronavirus è che sono le emozioni a muovere tutto. La politica, l’economia, la morale e i lanciafiamme. Se la paura è il terreno fertile per le dittature, la prima cosa da fare sarebbe imparare a controllare le proprie emozioni, non paragonare la quarantena ad un lager. Se c’è una verità che mi ha insegnato il Coronavirus è che va bene anche quando una grande verità non c’è e che è molto umano accettarlo, come si accetta la primavera.

#queneauchallenge #esercizidistile #imperfetto #36

IMPERFETTO

Si svegliava la ragazza, ogni mattina. Si svegliava col sole in fronte e la voglia di ballare, a volte. Si metteva le cuffie in testa e iniziava a muoversi sulle note dei CCCP. Non studiava, non lavorava, non guardava la tv ma inciampava. Inciampava in quelle sorti assidue ed insidiose che la vita le poneva di fronte, e sui marsupi. “Si viveva meglio senza i nazisti” c’era scritto sopra l’ostacolo.  L’imperfezione era la bellezza della giornata, l’errore la speranza che mancava per completare il tutto. Il ragazzo si lamentava, la stampante non funzionava ma la luce di quell’Agosto Berlinese soleggiava. Nel salotto l’entropia danzava, i volantini in terra li lasciava, la polvere imperversava. La ragazza oscillava le braccia nella sua danza della realtà. (Lo Zeitgeist che la osservava, da una comoda parentesi, e se la rideva). Capitolava al suolo, capitombolava sulla moquette. Così era se ci si alzava con quella frizzante energia di arte. Il ragazzo ancora si lamentava, doveva stampare e poi se ne andava, sbatteva la porta e rincorreva la produzione della giornata. Aveva le prove. Cosa erano le prove se non un bellissimo imperfetto? Era sola adesso e si sentiva mancare. Mancava cosa? Tentava di scrivere, di riempire con le parole il vuoto, si argomentava realtà parallele ma si sentiva comunque mancare. Succedeva spesso che le suonassero le orecchie e allora era l’altro, o che le facesse male la pancia, allora era lei. La mancanza, l’imperfetto, si dileguava a volte con dei mi piace di sua madre che leggeva le sue disperate odi, con qualcuno che leggermente la baciava sul viso prima di sbattere la porta o con le parole di sconosciuti specialisti.  L’imperfetto era la paura, l’unico tassello mancante all’esserci, ma era anche la leggiadria dell’ignoto, la domanda a scelta multipla, l’ultima figurina per completare la crisi. Si guardava le mani che scorrevano veloci sulla tastiera abbracciando ogni typo con un panico barocco  come quello di Achille che cercava Patroclo, come quello dell’imperfetto che  cercava di abbracciare il presente.

#queneauchallenge #esercizidistile #quarantena #35

QUARANTENA

La ragazza si svegliò con un leggero mal di gola e una ormai sempre più frequente astenia. Cercò di ingollare la propria saliva e si rese conto che non era di certo grave. Quello che non avrebbe mai potuto sapere è se fosse o meno coronavirus. L’Agosto Berlinese era solare e tutti pensavano che avrebbe di lì a poco sconfitto la pandemia. Provò a muovere le gambe per vedere quante energie aveva. Anche se non poteva uscire di casa, poteva sempre ballare in salotto. Prese il cellulare e le cuffie e iniziò a muoversi sui CCCP. Non studio, non lavoro, non guardo la tv…ehm, in realtà le avevano dato l’home office e quando il VPN funzionava poteva portare il pane in casa. Le Università non avevano ancora riaperto e non aveva ancora ricevuto una valutazione per l’ultimo Hausarbeit sulla questione Migrazione nel Teatro Contemporaneo italiano. Non sapeva se il professore fosse morto, grande luminare purtroppo in fascia molto a rischio, ma sperava di no o avrebbe dovuto rimandare la sua laurea. L’egoismo dilagava da un pezzo, tutto era cominciato quando la gente aveva iniziato a nutrirsi di carta igienica. Erano diventati tutti dell’Afd e della Lega. Homo Homini Lupus, delle vere facce di merda. Qualcuno si era dato alla macchia ed era stato ritrovato nella foresta nera congelato di fronte all’ultimo esemplare di fornellino da camping ordinato con Amazon Prime. Il salotto era ancora cosparso di volantini anticapitalisti, ma ormai era tardi, il capitalismo aveva portato le mascherine usa e getta a costare 100 euro l’una e quelli senza assistenza sanitaria erano morti in casa, ma almeno circondati dai propri cari. La quarantena persisteva e la ragazza aveva già scritto un romanzo e un’altra raccolta di poesie, le sue piante stavano benissimo e la casa era abbastanza pulita e in ordine, sicuramente di più del periodo precedente. Non studio, non lavoro, non guardo la tv. La tv non la avevano mai avuta, ma col pc avevano accesso alla solidarietà digitale e a molti più bei film a scrocco del solito. Lo streaming illegale era praticamente divenuto inutile. Purtroppo i social continuavano con teorie complottiste ma lei aveva imparato a silenziare i deficienti ( senza levar loro l’amicizia) e alternava fasi di panico a fasi di profondo sviluppo personale. Ad un tratto inciampò su un marsupio e si ritrovò con la faccia a terra. “ Si vive meglio senza i nazisti” c’era scritto. In effetti, tra i nazisti e il Covid 19 non sapeva bene quale scegliere, ma probabilmente un marsupio contro un virus non avrebbe avuto molto senso perché i virus non sanno leggere e non hanno morale mentre…. Si rialzò e corse a lavarsi le mani in bagno. Poi le disinfettò con l’ultima goccia di Sagrotan conservata per settimane. La moquette rappresenta la Wuhan dei pavimenti in caso non vi fosse chiaro. Nel frattempo il suo ragazzo, la cui tosse persisteva ormai da mesi, stava cercando di non sputare sulla stampante tenendo la faccia nascosta nel gomito. Fuori contesto qualcuno avrebbe potuto dire che stava danzando Gangnam Style. Doveva correre via di lì a poco per prendere la razione di verdure della settimana. Senza neanche un ciao, il ragazzo si infilò la penultima mascherina, i guanti da giardinaggio e uscì a fare provviste. Lei rimase sola, ad osservare lo striscione ormai lercio con su scritto #ichbleibezuHause che il vento continuava a riportarle dentro e non fuori il balcone. Io resto a casa. Si ricordò quando aveva desiderato per il suo compleanno molto più tempo per scrivere. Aveva soffiato sulle candeline un dover aver meno a che fare con la socialità, con questa FOMO di cui la gente non aveva  più finalmente il coraggio di parlare. Si sentì quasi in colpa, come se la pandemia l’avesse accesa lei spegnendo le sue 27 candeline. Ma un conto è sperare in una lunga vacanza in una baita in Svizzera, un conto è una pandemia. Forse la torta non aveva capito bene perché era tedesca. Si mise a scrivere al pc, le arrivò la notifica di alcuni mi piace di sua madre e le scese una lacrimuccia. Non la vedeva da quando avevano chiuso i confini ma almeno la sentiva tutti i giorni e sapeva che stavano tutti bene. Non vedeva l’ora di riabbracciarla per dirle: “Eh grazie alla quarantena spero che tu abbia finalmente avuto il tempo di leggere i miei esercizi di stile fino in fondo”. La psicologa la aspettava su Skype, a breve ci sarebbe stata la seduta settimanale in cui si sarebbe continuato il tema: “Le persone con disturbo di ansia generalizzato sono le migliori a gestire periodi di crisi perché a loro la vita è sempre parsa una continua ed esagerata emergenza”.

Meno mimose e più pantaloni unisex, ovvero perchè sono femminista

Quando ero piccola volevo chiamarmi Richard. Ci sono ancora amici dei miei genitori che scherzano su questa cosa, che per un lungo periodo della mia vita ho detto di chiamarmi Richard, o Elliot.
Parto da questo per spiegare perché, essendo femminista, credo che la battaglia contro gli stereotipi gender sia tremendamente importante.
Richard era il bambino di Pagemaster, con la grande avventura nel mondo dei libri e la casa sull’albero, Elliot era il bambino di ET con i sentimenti così puri da riuscire a voler bene ad un mostro marrone venuto dallo spazio con un vocabolario decisamente limitato, io ero una bambina arrabbiata. Non lo sapevo ancora perché, ma ero una bambina arrabbiata che non sapeva nulla del Bechdel test o del femminismo, ma ero una piccola Mafalda che si affacciava senza saperlo su una esistenza subdolamente sessista e per di più in generale sessualmente repressa. Non lo sapevo perché ma ci stavo male e stretta, sin dall’inizio, nel patriarcato.
Dopo che nessuno accettò il fatto che io volessi chiamarmi Richard e non Alice come quella svampita bionda col vestitino nel paese delle meraviglie, iniziai a fare una piccola rivoluzione negli abiti. Volevo essere come i maschi,che si vestivano con le stampe mimetiche. Uscii di casa una mattina d’estate con i miei pantaloncini militari in perfetto abbinamento con la cannottiera senza spalline e trovai mia nonna sulla porta che mi disse che non avrei mai trovato marito conciata così. Andai al mare molto triste, perché pensavo che quello volesse dire vivere una vita piena di solitudine, e non mi piaceva l’idea, io un marito lo volevo.
Ancora senza marito ma con già due fidanzati alle spalle, in prima elelentare mi comprai dei pantaloni unisex, dei bermuda azzurri con i fiori hawaiani come andavano quell’anno. Non facevo che ripetere alla gente la parola unisex, un po’ perché era una bella parola che suonava bene e un sacco misteriosa, un po’ perché per me era una grandissima conquista: non stavo indossando qualcosa per maschi ma qualcosa di unisex, lo potevo fare, potevo gustarmi quelle ampie tasche piene di figurine senza sensi di colpa.
Iniziai a camminare con le mani in tasca, alla ricerca di modelli, e mi prese in generale una fissa per l’azzurro. Volevo tutto azzurro e per il mio settimo compleanno avevo delle New Balance Azzurre, una salopette di velluto a coste azzurro, un dolcevita azzurro, i collant di lana azzurri e due codine legate rigorosamente da gommini azzurri. Questa sottospecie di puffo in cui mi ero trasformata, aveva esplicitamente detto alle sue amiche che non voleva assolutamente niente di rosa e nessuna bambola. Qualche sventurato mi regalò una Barbie e mi venne da piangere, rovinando la celeste atmosfera che volevo creare. La simbologia dei colori è molto importante e per anni sono stata la No Rosa , era molto importante per me, una sottospecie di scelta politica. Perché l’azzurro sì e il rosa no è facile da capire. Il mio gioco preferito a ricreazione era Maschi contro femmine perché volevo far vedere ai maschi che ero forte come loro.
La moda maschile dell’epoca nella piccola città di mare dove sono cresciuta veniva dalla cultura americana legata al surf. I brand che i più belli della scuola indossavano alle medie erano la Quicksilver, la O’neill e la Rip Curl. “Da grande voglio mettermi con un surfista” scrivevo sul diario, ma almeno avevo smesso di pensare al matrimonio. Senza secondi scopi iniziai a fare surf e mi piacque da matti. Mi divertivo un sacco, ed ero una che generalmente si nascondeva durante l’ora di educazione fisica. Mi piaceva così tanto cavalcare le onde che alla fine riuscii a convincere i miei genitori a comprarmi una tavola. Il bagnino mi fermò la prima volta dicendo che una bambina da sola in mare con la tavola non ci poteva andare, però vedevo i ragazzini poco più grandi di me fare esattamente la stessa cosa. Ok, non ero un colosso di bambina ma sentivo che anche questo aveva a che fare con qualcosa di ingiusto. Quando trovai un’altra ragazza che faceva surf mi sembrò di aver trovato la mia compagna di vita. Qualche tempo dopo apparve la Roxy ovvero la versione femminile della Quicksilver e, per quanto mi facesse arrabbiare che ci fosse quel cuore rosa coi brillantini su tutti i capi di abbigliamento, mi sembrò una conquista e mi comprai una felpa che divenne la mia felpa preferita nonstante mi stesse gigante.
Credo di aver iniziato a fare pace con la mia parte femminile grazie ai libri di Bianca Pitzorno. Le bambine nei suoi romanzi erano intelligenti, spiritose e disubbidivano spesso. Dopo aver conosciuto Hermione Granger decisi che c’era ancora un sacco di speranza per il genere umano. Iniziai a fare teatro e ad uscire con un ragazzo della compagnia, il surf se ne era andato lasciando il posto a quel pop punk anni novanta coi polsini a righe nere e rosse. Mi stava simpatico, sia lui che il punk, quando si avvicinò per baciarmi per poco non fugii schifata ma alla fine riucii a concentrarmi e farmi baciare a bocca chiusa. Quasi la stessa settimana una ragazza della mia compagnia nei camerini una sera mi chiese se mi sarebbe piaciuto baciarla, ed ebbi una sensazione strana simile al senso di colpa. “Sì, ma prima devo baciare Y per capire se mi piacciono gli uomini”. C’era una precisa gerarchia nella mia testa anche se non sapevo da dove arrivasse, chi ce l’avesse messa. Ruppi con Y ma si dilaniò anche la mia amicizia con questa ragazza. Più o meno la stessa identica situazione successe due volte, e non avevo ancora compiuto diciotto anni. Quando arrivai finalmente ad avere il mio ragazzo ufficiale, a cui volevo davvero bene e dal quale ero veramente attratta fisicamente, avevo una visione molto contorta di cosa sarebbe successo nudi in camera da letto. Quello che sapevo è che lui doveva entrare e venire, e mi sarebbe piaciuto. Il problema fu che io avevo iniziato ad avere orgasmi masturbandomi all’età di sette anni, età in cui mi iniziarono a crescere i peli sotto le ascelle e in cui iniziarono a prendermi in giro perché nessuna bambina li aveva. Avevo sette anni quando credetti di essere magica come le Witch dove aver avuto il primo orgasmo in camera mia mentre giochicchiavo con le mie mutande. La mia prima volta fu decisamente il contrario, niente di più lontano da un orgasmo. Chiesi in giro, stupefatta che questa grande cosa che doveva essere il sesso si fosse rivelata una delusione tremenda. Mi rispose una mia amica, con una versione poco evoluta di Cioè alla mano, che era molto difficile che una donna avesse un orgasmo.( Se continuate a pensare che questo non sia un fatto di sessismo, avete tuttora una vita sessuale molto infelice e mi dispiace)
Potrei continuare a fare un elenco biografico pseudo ironico, ma probabilmente vi annoierei. Sono femminista sin da piccola, perché ho sempre considerato tutti uguali e il sessismo mi ha reso la vita enormemente difficile. Quando la gente al tavolino tira fuori la simpatica domanda sul perché sono femminista non so come fare a rispondere. Questa è la risposta: ho sempre voluto essere un maschio. Ma non perché avessi un rifiuto del mio corpo che andasse al di là del normale disgusto adolescenziale, ma perché ho sempre percepito il modo diviso in due parti, una rosa e una azzurra, e quella azzurra aveva le cose più fighe. Sono sicura che nel frattempo ci fosse qualcuno che doveva essere blu per forza, ma a cui piacevano i vestitini rosa.
Quando ero piccola mio padre voleva prendessi lezioni di piano, ma il problema è che all’epoca a suonare il piano ci andavano tutte quelle bambine con le Barbie e il vestitino di San gallo coi sandali coi brillantini, e io associavo il pianoforte alle loro faccine angeliche. Accidenti a me iniziai troppo tardi, quando ebbi abbastanza sale in zucca da capire che non andavo contro la mia politica suonando quello strumento pieno di tasti bianchi e neri, quelle bambine suonavano già Chopin.
Sono femminista perché non voglio che le nuove generazioni crescano con questa opposizione in testa, voglio che si possano esprimere come meglio riescono, ed abbiano un’ entrata in questa esistenza il più libera possibile da preconcetti che andranno ad influenzare la loro vita da adulti in maniera irreversibile. Sono femminista perché c’è ancora il disgusto per il corpo della donna, oltre al salario differenziato. Sono femminista perché non voglio che le nuove generazioni pensino sino ai 15 anni di età che esiste solo il sesso orale maschile, come è successo a me fino a che non ho visto una scena in un film sull’età vittoriana della BBC. Sono femminista perché non capisco perché il sangue mestruale sia quasi un tabù mentre lo sperma no, anzi. Sono femminista perché voglio che le cose cambino e per farlo servono sia le leggi e le campagne politiche sia una serie di prodotti culturali nuovi, coscienti, che educhino all’uguaglianza.
La giornata della donna non è proprio una festa. Per me, è il giorno della lotta per i pantaloni unisex. Meno minose, più pantaloni unisex.

#queneauchallenge #esercizidistile #horror #34

HORROR

Proprio quando sembra una mattina come le altre, c’è qualcosa che non va. La ragazza si alzò con una strana sensazione, come se dentro di lei qualcosa volesse uscire, emergere e vendicarsi. Le sue braccia tiravano verso l’alto e qualcuno dal fuori avrebbe potuto dire che stava ballando. Era un agosto grigio e afoso a Berlino. La testa le girava grave e non aveva completo controllo del suo corpo. Era intrappolata in una danza continua, monotona e ripetitiva. Cercò di raggiungere il salotto ed ebbe un déjà-vu. Ma non si era già svegliata ed era già andata nel salotto? Dove era la musica? Sentiva un pianoforte in lontananza, ma il suo ragazzo non era al piano. Sussurri muovevano le sue gambe. Cosa aveva ascoltato per l’ultima volta? Quella sensazione le stava comunicando che quella sarebbe davvero stata l’ultima volta, un’ultima infinita volta. Voleva prendere il cellulare, mettere i CCCP o qualsiasi cosa la potesse calmare. Voleva che qualcuno la salvasse. Il suo ragazzo era nell’altra stanza, stava stampando qualcosa sbuffando, mentre lei era in preda a questa macabra danza. Cercò di urlare ma scoprì di non poter produrre suoni. Era come guardare il suo corpo muoversi tirato da invisibili fili. Il cuore da burattino palpitava sempre di più, una sensazione di morte si stava impadronendo di lei, era troppo stanca per continuare ma il suo corpo non la finiva. Il ragazzo nel frattempo se ne era andato di fretta. Si sentì cadere e si ritrovò a  terra con la faccia su un marsupio. “Si vive meglio senza i nazisti” riusciva a leggere, scritto in rosa. Era pieno di vecchi volantini e polvere. A terra, i suoi occhi si fecero brucenti. Non poteva essere tutto vero. Aveva riacquisito il controllo sulle mani, cercò di coprirsi gli occhi e una sensazione di nausea la investì. Tornò a sentire le gambe ma scoprì di non avere abbastanza energie per rialzarsi. Era tutta un tremito. Riaprì gli occhi e osservò i suoi palmi: erano coperti di sangue. L’orologio del salotto indicava ancora le sette e mezza, la lancetta dei secondi era irremovibile. Iniziò a strisciare a pugni chiusi verso la porta del corridoio ma si fermò non appena sentì qualcun altro strisciare sopra la sua testa. “Solo un disturbo paranoico, solo una proiezione, io sono al sicuro, io sono abbastanza, io sono forte e resistente”. La botola della soffitta si aprì di colpo. “Io sono al sicuro” si sarebbe continuata a ripetere la ragazza se non fosse stata investita da un rumore assordante di porte che sbattono. Ma le porte erano tutte chiuse. Tentò di alzarsi invano. “Solo una proiezione”. Il suono del carillon con la musica di Pinocchio, lo aveva ancora? I suoi pensieri si fecero un tremolo di violino. Di nuovo quella voglia di danzare. Si sentì rialzarsi di colpo. Le mani ancora piene di sangue avevano gocciolato per tutto il corridoio. Doveva vomitare. C’era qualcosa dentro di lei, dentro casa sua. Qualcuno stava di nuovo suonando il pianoforte. Un tonfo, e poi una mano di donna si fece largo dalla botola. “Forse sto solo scrivendo tutto”. Il panico la fece correre verso il salotto, voleva chiamare sua madre ma…. le sue caviglie vennero bloccate da qualcosa di viscido e appiccicoso. Addio.

Qualche ora dopo il cellulare squillò ripetutamente, la sua terapista era preoccupata perché non si era presentata all’appuntamento. Nello stesso istante il suo cadavere, completamente intatto, sorrideva beffardo di quel sorriso di cui si muore, da soli, in casa propria. Nessuna traccia di sangue o colluttazione e qualcuno avrebbe persino potuto dire che le mani della salma profumavano ancora di vaniglia e miele. L’unica cosa strana era un piccolo ragno che stava uscendo dalla narice destra.

#queneauchallenge #esercizidistile #passatoremoto #33

PASSATO REMOTO

Si alzò, si stiracchiò e iniziò a ballare. Ascoltò e riascoltò i CCCP e nel frattempo sorrise ad una mattinata di sole tedesca. La scrittrice la fece poi inciampare, con quel controllo remoto della realtà che unici gli esseri scriventi ebbero sugli esseri scritti. Nell’altra stanza si sentì un grido di rabbia. Un ragazzo non fece funzionare il collegamento fra il wifi e la stampante e quella non stampò. Come in un telefono senza fili i due si salutarono, bambinescamente senza sentirsi. D’un tratto si trovò sola, l’essere scritto, con un marsupio e qualche volantino. Si incupì, si rattristò, e non capì bene il perché. Qualcuno scrisse sul marsupio ove inciampò: “Si visse meglio senza i nazisti”. La solitudine la prelevò e la portò con sé, molto indietro e senza la remota possibilità di salvarsi. A quel punto anche la scrittrice si sentì chiamata in causa ed entrambe si lacerarono nel tentativo di dividersi. “Fummo connesse, alla nascita”. La madre mise mi piace, nuovamente, ad un post; le due si sentirono sopraffatte da quel sentimento di governo dall’alto e immigrazione. Ma il sole splendette e splendè senza tregua. La ragazza che cadde, desunse e si dispiacque di non riuscire nella solitudine. “Mi sentii interconnessa ma senza il controllo della situazione” descrisse in terapia ore dopo. “Non è che non volli scrivere, è che non valsi abbastanza a me stessa”. Berlino tacque ma non l’assolse.

#queneauchallenge #esercizidistile #presente #32

PRESENTE

Si sveglia, si stiracchia, guarda davanti a sé ed inizia a ballare. Danza, danza, danza, la ragazza danza nella realtà fino al salotto. È mattino, è Agosto, è a Berlino. La ragazza si sente presente, fra gli oggetti della casa. Grounding. Tocca la parete ruvida del muro, la maniglia fredda della porta, il leggero tessuto del pigiama e, sotto, il suo corpo caldo. Delinea le curve che trova e poi si spettina i capelli, li porta verso l’alto e li fa scorrere fra le dita. Grounding. Qui e ora. Prende il cellulare e si mette ad ascoltare i CCCP. L’odore è di chiuso e di resina. I suoni del traffico sono molto lontani, solo un ticchettio dalla stanza adiacente. Balla, balla, balla, nel mezzo del divano, morbido fino ai ¾, del severo tavolo in legno, del mare di volantini e poi, nell’estasi, in quel completo esserci inciampa. Un marsupio nero con una scritta “Si vive meglio senza i nazisti”. È lo Zeitgeist che si diverte a fare gli sgambetti. “Maledizione!” urla l’altro che nell’altra stanza vuole stampare dei fogli. La stampante non funziona. Volano ancora più fogli e poi sbatte la porta. Quando l’altro se ne va di fretta, il presente la finisce di ballare e inizia a soffocare. La soffice moquette non è più un nido e l’abbandono è l’unica opzione. La solitudine da marsupio non si cura della fievole luce che viene dalla finestra, perché è tutta dentro la testa. Lontana dal materiale, la ragazza che non balla più, si avvicina al pc e inizia a scrivere. Non è più presente, ma si annulla in un corpo leggero dal collo rigido, si sente come in macchina nei lunghi viaggi. “Ci dobbiamo fermare?” le chiede la madre, dopo la seconda curva. La stessa madre che le mette i mi piace agli articoli da lontano. La ragazza sparisce lentamente, nei suoi pensieri e poi su un bus. Del presente rimane solo un pijama, gli ultimi oggetti sulla scrivania, gli appunti sul calendario, la tazza mezza piena, i documenti, la carta del cioccolato. La più grande menzogna è che il dasein si può gestire come una semplice allergia alla definizione- la ragazza-l’immigrata-l’italiana-la donna-la fidanzata-la studentessa- la figlia- la scrittrice-la bambina- quando in realtà un soggetto è continuamente costretto a rendersi estero per sopravvivere. E chi decide la gerarchia di questi spostamenti aleatori?  Come i volantini che si spostano senza che ci sia vento nel salotto. L’altro? “Come si sente, adesso?” Presente non vuol dire contemporaneo.

TERRENO FERTILE ovvero riflessioni del 27 Gennaio 2020 di un’immigrata italiana a Berlino

 Cosa vuol dire per te celebrare il 27 Gennaio a Berlino? Il Giorno della Memoria qui è molto più blando che in Italia. Questo non avviene perché i tedeschi si siano dimenticati l’Olocausto, ma per l’esatto contrario: il passato è compagno del presente e per questa ragione scegliere un giorno arbitrario è quasi futile. C’è, ma quello che c’è molto di più e si sente ancora, è il senso di colpa di intere generazioni, un senso di colpa storico che permea anche da certe posizioni della sinistra in politica, che sgocciola dai monumenti in centro, che si solidifica in un politically correct in ambiente accademico che a volte sfiora il ridicolo. I tedeschi non hanno bisogno del Giorno della memoria, se lo ricordano ugualmente senza dettagli atroci su Facebook il 27 Gennaio. Io vedo una costante paura del ripetersi, un collettivo ricordarsi, e questo, per quanto abbia indubbiamente distrutto l’identità nazional-psicologica di coloro che sono nati o cresciuti dopo, quando i crimini cominciavano a venire puniti dalla legge, questo costante malessere storico è un bene.

 Non mentiamoci: se dici Italia pensi Pizza, se dici Germania pensi Hitler. I primi mesi che vivevo a Berlino mi spaventavo tutte le volte che mi trovavo sulla metro, imbottigliata nel pendolarismo mattutino, e un altoparlante urlava qualcosa in un tedesco che ancora non capivo. “Stare attenti alle porte” si traduceva in “Ti abbiamo trovata” dentro la mia testa. Su questo ci sarebbe da dire che i nazisti anche nei film doppiati li lasciano quasi sempre urlare in tedesco coi sottotitoli, e quindi persino la lingua tedesca finiamo per associarla all’Olocausto, noi Italiani. Comunque, questo continuo essere ricordati è la cosa che, stranamente, mi fa sentire più al sicuro.

Per quanto l’AfD (Alternative für Deutschland, il partito populista di estrema destra, paragonabile alla Lega) stia ottenendo sempre più voti nella ex DDR e persino nella metropolitana Berlino, e questo sia allarmante, ho anche sentito dire il sindaco di Berlino che in realtà non dovrebbero neanche avere il diritto di sedersi in parlamento e ho letto di numerosi casi di boicottaggio durante le loro più grandi riunioni di partito. Una loro manifestazione è stata bloccata da un corteo queer con musica Techno nel 2019, e tantissimi bar avevano l’adesivo con scritto “No party for Nazi” o qualcosa di simile. Ho visto gruppi di neonazisti sfoggiare in grande pompa un cartellone con su scritto “Noi non ci pentiamo di nulla”, e mostrare il culo, in senso letterale, e mi sono anche trovata un simpatico nazista di quartiere sul pianerottolo a distribuire volantini, ma di manifestazioni per i diritti delle donne, i diritti umani, i diritti civili della comunità Lgbtq+ ( Non dimentichiamoci che nei campi ci finirono ebrei, comunisti, asociali, disabili e omosessuali)… ce ne sono state molte di più, senza bisogno di ricorrere alle statistiche. Potrei azzardarmi a dire che, per quanto il governo tedesco abbia notevoli problemi con il terrorismo di matrice nazista (Omicidio Lübcke, politico del partito di Angela Merkel), certe idee non vengono viste come “eh ma la libertà di espressione”, il problema c’è ed è grosso ma l’intolleranza non coinvolge la maggioranza della popolazione.

 Noi abbiamo invece non solo lasciato sfilare tranquillamente i gruppi neofascisti, ma li abbiamo addirittura protetti con la Polizia. Ok, alla fine abbiamo le Sardine- movimento criticabile ma tutto sommato positivo- ma prima che arrivassero ci sono stati scandali come negazionisti nei consigli comunali (Ma la legge Scelba, scusate?), abbiamo avuto fra i candidati alle europee cognomi che non dovrebbero essere ammessi, sono state offese vittime dell’Olocausto definendole “divisive”, da Traini in poi c’è stata un’escalation di atti razzisti e abbiamo organizzato sul nostro territorio manifestazioni di livello mondiale dove le conquiste base del femminismo venivano messe di nuovo in discussione. Ho visto muoversi l’Anpi sia in Italia che a Berlino, esatto, l’Anpi ha indetto una manifestazione a Görlitzer Park nel 2019 e questo mi ha dato molto da pensare.

L’Italia è ormai parte di quei paesi dell’Ue che sono dichiaratamente xenofobi insieme all’Ungheria, la Polonia e l’Austria (anche se secondo uno studio del 2018 il paese più razzista della UE sarebbe la Finlandia). Il Belpaese sta attuando una serie di leggi anti- integrazione (che comunque sarebbe stata assimilazione più che scambio culturale). Qui il termine è molto importante, perché non si tratta di una politica anti- immigrazione vera, che in una qualche malata logica di estrema destra funziona, ma di un modo di creare solo caos. Il fatto che lo abbiano chiamato Decreto Sicurezza sembra una barzelletta: fa perdere il lavoro agli italiani che si occupano di integrazione (Vedi i tagli ai progetti Sprar) e mette sulla strada dei poveracci senza la minima prospettiva, o li concentra in grossi campi abitativi, prevalentemente gestiti da privati, dove c’è già stata la denuncia per violazione dei diritti umani. Una politica che preferisce lasciar morire la gente in mare e demonizzare le ONG e gli attivisti piuttosto che occuparsi di fare riforme che migliorino il welfare generale, l’integrazione, e l’educazione; una politica che non si rende conto che il problema non sono quelli che arrivano ma quelli che se ne vanno. Abbiamo cambiato governo ma il Decreto Sicurezza è ancora lì.

È inutile fare i post con gli emigrati italiani in America nel primo dopoguerra, siamo al momento attuale un popolo che emigra. Per adesso le mete preferite sono l’Inghilterra e la Germania, ma a breve grazie alla Brexit, la Germania verrà letteralmente invasa. Pizzerie ovunque, I wurstel spariranno e tutti cominceranno a parlare a gesti, perché il tedesco è una lingua troppo difficile e l’inglese sta per diventare extraeuropeo. Scordatevi la fuga dei cervelli (solamente il 30 per cento degli emigranti possiede una laurea) e immaginatevi più l’assalto al Job Center alle otto di mattina quando ancora fa buio, stile scena di film Zombie di Serie B.

La Germania non è un posto perfetto, lungi dal fare un elogio gratuito, ci sono tante politiche ingiuste anche per quanto riguarda l’immigrazione: il trattamento ”speciale” riservato ai rifugiati siriani, i rimpatri forzati e il fatto che per integrazione si intenda più introduzione forzata nel mercato del lavoro. È un luogo dove il capitalismo è all’estremo tanto da essere sull’orlo dell’autodistruzione, tanto che, ad esempio, a Berlino arrivano proposte di esproprio di grandi compagnie immobiliari per reumanizzare le politiche abitative. Ma le leggi che regolano il sociale ti permettono di avere un’esistenza molto più dignitosa di quella che potresti avere in Italia, e non si basano quasi mai sulla cittadinanza. Ad esempio, il cosiddetto “Harz 4” o “ALGII” (Secondo sussidio di disoccupazione), che corrisponde in maniera un po’ goffa al nostrano “Reddito di Cittadinanza” può richiederlo quasi chiunque abbia lavorato in Germania per pochi mesi. La maggior parte degli italiani lo richiede. Arrivano, neanche sanno dire una parola e pretendono i soldi, e un corso di integrazione gratuito, questi maledetti immigrati. È bello vedere come i soldi investiti nel sociale creino quel tipo di società in cui andare all’università e avere un figlio a 26 anni non diventa impossibile (perché è così che si fa a fare riprodurre la gente, non negando il diritto all’aborto), il lavoro in nero è rarissimo (almeno che tu non lavori in un ristorante italiano), trovare un’occupazione per cui si è studiato qualcosa è un obiettivo di tutti, come società, e i centri per l’impiego (quelli slegati dai vari benefit) funzionano. Un’ altra cosa molto interessante è che oltre al senso di colpa collettivo, in Germania c’è anche un rispetto collettivo dell’intelligenza, o perlomeno del sapere. Con la Cultura si mangia molto di più ( il 14 per cento dei soldi pubblici vengono investiti nella Cultura, contro lo 0,3 per cento in Italia), le Lauree Umanistiche non sono una maledizione eterna, il pensiero critico è costantemente incoraggiato (hanno il 10 per cento in meno di analfabeti funzionali) e se studi, se hai lo status di persona che si sta occupando di conoscenza, riesci a sgattaiolare per un po’ fuori dal sistema liberista con una serie di sconti, agevolazioni e bonus: i trasporti costano la metà e le tasse universitarie sono quasi inesistenti. Il sistema sanitario è costosissimo ma fa sì che quasi tutto sia coperto, anche tutte le visite specialistiche; le medicine vengono a costare molto meno e ci sono comunque casi in cui è lo Stato a pagare l’assicurazione sanitaria. Diciamo che trovarsi a Berlino il 27 Gennaio è economicamente ed eticamente conveniente.

 Ma cosa c’entra col giorno della memoria?

 Sarebbe questo di cui dovremmo iniziare a parlare in Italia, non tornare a delle dicotomie medievali per costruire delle becere identità populiste. Dove è la politica vera? In Italia non è sparita solo la sinistra, è sparito il dibattito utile. Stiamo lì a scannarci sulla transitività dei verbi e non ci accorgiamo della intransitività del governo che non collabora molto al benessere del cittadino. Mettere Lino Banfi all’Unesco è stato uno statement coerente. Il Berlusconianesimo sotto il quale la mia generazione è cresciuta era la religione della figura -di-merda, abbiamo de-moralizzato ed emotivizzato la politica e queste sono le (non ancora estreme) conseguenze. La laurea non serve a nulla, basta la vita, i neri sono brutti, le donne devono stare in cucina o nude, e i diritti civili se li meritano solo quelli che trombano per riprodursi, e lo dico perché sono cristiano eh.

 La cosa buffa è che nell’arte contemporanea non si fa che parlare di post-umanesimo, di sistemi filosofici che permettano una migliore ecologia delle cose, che si arrivi a rispettare un sasso o una riserva naturale quanto una vita umana, ma abbiamo la metà dei governi mondiali che non riesce nemmeno ad allacciarsi le stringhe delle attuali promesse ontologiche. Io vedo un disumanesimo, e specialmente nel mio paese di origine.      

Ma quindi non ti senti più italiano? Non posso citare Gaber tutte le volte, ma non passa giorno in cui non mi venga ricordato che sono italiana, non è una cosa che puoi sentire o meno, è lo stato delle cose. Ma il cibo non ti manca? Sarei disposta a nutrirmi fino alla morte di wurstel, cetrioli e cappuccini vegani pur di avere l’università gratis

 C’è quel detto che dice “Ogni persona sta combattendo una battaglia difficile, sii gentile, sempre”, beh io penso che a seconda della battaglia, oltre ad essere gentili sia necessario prendere una posizione. Penso troppa gente sia stata solo gentile con Adolf Hitler e la sua battaglia. La nostra battaglia, di noi ultime generazioni, è il riscaldamento globale, l’uguaglianza, la pace e il superamento delle identità nazionaliste di stampo romantico, tutto il resto è una cagata pazzesca. La nostra battaglia, di italiani, è di non ricadere in trappole fasciste e di non sottovalutare la nostra responsabilità storica sfoderando i migliori evergreen whataboutism su Foibe e via dicendo il 27 Gennaio, o qualsiasi altro giorno dell’anno, ma guardare fuori dalla finestra (direzione Libia), farlo davvero con autocritica, sia che si sia in patria che ci si trovi all’estero, perché la fortuna del nazismo e del fascismo non è stata di essere ideologie nuove, scientificamente provate e con basi solide ma solo di aver trovato terreno fertile. Questo è quello che nel giorno della memoria dovremmo tenere a mente: non creare terreno fertile. E il terreno fertile è facile crearlo, basta un po’ di crisi economica, intolleranza e qualche passo indietro.

#queneauchallenge #esercizidistile #passatoprossimo #31

PASSATO PROSSIMO

Si è alzata sul presto, si è stiracchiata, ha fatto gli esercizi per la schiena e ha iniziato a danzare. È passato poco tempo ed io sono stata lì a guardarla, quella me che ha fatto finta di non vedermi anche se è stata scritta da me. Ha acceso il cellulare ed ha ascoltato i CCCP. È passato tanto tempo dall’ultima volta. Poi mi ha inghiottita con il suo entusiasmo e sono divenuta la sua felicità. Il salotto di certo non è stato messo in ordine da nessuno, il pavimento è stato ricoperto di volantini. E un marsupio. Chi te l’ha regalato, personaggio felice?  Il ragazzo nell’altra stanza ha bestemmiato, si è arrabbiato con la stampante e lei, il personaggio felice, è caduto per terra perché ha inciampato sul marsupio. Gli è stato regalato ad un festival di organizzazioni contro l’estrema destra, sopra è stato scritto “Si vive meglio senza nazisti”. Ha riso, ha riso un sacco. L’altro personaggio è però poi dovuto andare via e lei non ha più riso. Si è incupita, ha guardato la finestra di un Agosto Berlinese e ha pensato a tante cose contemporaneamente, ma al passato prossimo. Quel passato che non è andato via e si è incarcerato nelle nostalgie, quel passato che in realtà è stato un presente, un futuro e si è continuamente mischiato in un essere andata ed un essere tornata. Quel passato così prossimo che non ha mai svuotato la valigia. Ha contato i mi piace di sua madre, i giorni che sono spariti veloci e quelli che ha meravigliosamente costruito. Si è sentita spersa, io mi sono allontanata e ho continuato a guardarla da una comoda terza persona. Si è messa a scrivere, almeno così mi è parso, ed ha assaporato un’inconscia prossima estate. L’ho lasciata del tutto quando è salita sull’autobus. Mi è quasi venuto da piangere- l’ho vista cresciuta e decisamente a me più prossima.

#queneauchallenge #esercizidistile #ignoranza #30

IGNORANZA

Io non so proprio cosa vogliate da me. Va bene, sì, ho costruito questo personaggio in questa maniera, e allora? Non è mica che uno lo fa sempre per dare noia, cioè non si può proprio più scrivere nulla allora. E offendi i neri, e offendi i gay, e offendi quegli altri-come si chiamano- i trans e blablabla chiacchiere. A me della vostra political corretness o -come cacchio si scrive- non me ne frega nulla. Io non sono schiava del pensiero unico e non sono né di destra né di sinistra. Il mio personaggio si alza una mattina a Berlino col sole? E anche se fosse, eh? No, non c’entra nulla l’isteria climatica, il clima è sempre cambiato e c’è sempre qualche gretino che deve farsi vedere. Sì, volevo forse tradire la patria con la mia scrittura? Io me ne sbatto, io amo il mio paese e me ne sbatto degli hater come voi. E la ragazza inciampa su un marsupio con una scritta politica, mi dite, embè? Voi non inciampate mai sulle cose? Oppure se sono politiche riuscite ad accorgervene prima? Ci sono un sacco di bucce di banane politiche in questa società e voi vi preoccupate del mio marsupio, che per di più era un regalo. Come quel tizio che ha messo la banana sul muro, eh ma lui è un artista. Mi stanno sul culo questi intellettualoidi comunisti che fanno finta di fare le cose. Per quello ho usato i CCCP: “Non studio, non lavoro”. Cosa rappresenta l’altro personaggio allora? Ma che ne so, l’ho fatto litigare con una stampante così, cose che capitano. Non c’e empatia, no, è da buonisti piagnoni, è una viziata che sta lì davanti al pc senza scrivere nulla. Perché si sa che gli immigrati non hanno mai voglia di lavorare. Questi giovani che lasciano il paese, sì, non lo so, non mi convince, è una trappola globalista come l’erasmus o gli psicologi, perché si sa che la depressione si cura andando a fare lunghe passeggiate nei boschi, che costano pure meno. Ora vogliate scusarmi ma le vostre domande sono più nocive di un vaccino e io non sono qui per parlare del nulla.